Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Nella tarda estate del 1965, nello Utah, fra gli appartenenti alla Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni (più noti come Mormoni) si diffuse una diceria preoccupante.
In coincidenza con l’annuale conferenza generale dei fedeli di quella confessione, che si tiene a Salt Lake City, sarebbero esplosi disordini violentissimi, preordinati da tempo, che avrebbero portato morte e distruzione - tutti fomentati dalla minoranza afroamericana. La preoccupazione era palpabile. Quando ormai le voci si erano già spente, il 28 settembre, il Daily Utah Chronicle le riassunse così:
Secondo le varie versioni, dalla Base aerea Hill erano sparite 17 bombe, era stata fatto incetta di dinamite, hotel e motel erano completamente prenotati da forestieri, tutti i voli da Los Angeles verso Salt Lake City erano pieni di teppisti neri, un nero aveva comprato 40 fucili in un negozio di articoli sportivi del centro, e 3500 altri neri erano già arrivati a Salt Lake City. Martin Luther King aveva preso alloggio all’Hotel Utah… quattro campeggi di agitatori provenienti dall’Università di Berkeley erano comparsi intorno alla città… Duemila professionisti dei disordini e membri dei Black Muslims arriveranno nella zona grazie alla NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People). [Lo stesso testo si trova sul Daily Utah Chronicle del 5 ottobre e sul Salt Lake Tribune del 29 settembre]
Lo storico Christopher James Blythe, co-direttore del Journal of Mormon History, ha ricostruito di recente per il sito della Utah Division of State History ciò che accadde in quelle settimane convulse.
Sullo sfondo, nella chiesa Mormone c’erano forti tensioni fra un’ala socialmente conservatrice e un’altra che voleva una rapida integrazione degli afroamericani nella società. I disordini razziali dilagavano violentissimi in tutti gli Stati Uniti, soprattutto nelle grandi città della costa occidentale. Nel mese di agosto, per sei giorni Los Angeles era stata messa a ferro e fuoco dai dimostranti. Sono tuttora noti come “i fatti di Watts”, e portarono 34 vittime e oltre 1000 feriti.
Questi due, per Blythe, potrebbero essere i fattori all’origine dell’ondata di voci del settembre 1965 e del clima di paura creatosi: la causa generale, quella remota, e la causa più specifica, più prossima.
Su piano locale, poi, aveva influito la copertura sistematica della stampa locale dello Utah, che sin dall’anno precedente era andata via via riferendo gli sviluppi delle tensioni razziali di quegli anni in toni sempre più accesi. L’analisi delle collezioni dei periodici mostrano che gli articoli sul tema erano praticamente giornalieri. Il paradosso consisteva nel fatto che nella capitale dello Stato e nelle altre cittadine del territorio, invece, la situazione era assolutamente tranquilla. Non vi era alcuna traccia di manifestazioni, di violenze, o della formazione di gruppi radicali.
Secondo Blythe, l’equilibrio cognitivo degli abitanti di Salt Lake City si giocava fra questi due poli: i toni allarmati per ciò che accadeva fuori dallo Utah e la totale assenza di veri eventi preoccupanti sul terreno.
Questa tensione fra i due poli si ruppe di colpo il 30 maggio 1965, data in cui ricorreva l’annuale Memorial Day: il giorno in cui gli americani rendono omaggio ai militari caduti di tutte le guerre, celebrandoli con parate, visite ai cimiteri e cerimonie pubbliche.
Nella zona del Liberty Park di Salt Lake City, un gran numero di persone, in larga parte adolescenti, si scontrò con una polizia impreparata a gestire disordini e a renderne minima la portata. Si ebbero molti feriti, arresti, danni ad auto e negozi. In termini assoluti, rispetto a quanto stava accadendo altrove, si trattò di un evento minore (sembra che tutto si fosse concluso in due ore), in cui una parte degli attori era mossa da intenti politici, ma un’altra da un teppismo occasionale sostenuto dall’uso di alcool. Niente, comunque, appariva pianificato e strutturato.
Il segnale però, era che anche a Salt Lake City i disordini erano una possibilità attuale. I giornali aprirono il dibattito, e in molti scrissero lettere in cui si leggeva l’ansia per quanto sarebbe potuto accadere. Gli incidenti del 30 maggio ebbero conseguenze anche sugli orientamenti delle forze dell’ordine, che iniziarono una lunga serie di manovre addestrative che - si noti bene - a volte si svolgevano in luoghi pubblici, osservate con curiosità dai cittadini. Quando in città giunse per addestrarsi anche un reparto anti-sommossa della Guardia Nazionale dello Utah, le voci sull’imminente esplosione di una vera e propria guerriglia cominciarono a prendere quota. In modo più o meno cosciente, un portavoce della Guardia Nazionale dichiarò che le dicerie che si stavano diffondendo erano cadute al momento giusto, perché era proprio quello il momento giusto per intensificare l’addestramento.
Lo stesso sindaco di Salt Lake City, del resto, il 27 agosto aveva affermato che le voci, infondate o meno che fossero, erano una buona occasione per esser pronti per eventuali manifestazioni contro l’Assemblea generale della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, ossia la grande assise mormone ormai prossima (Salt Lake City Tribune, 29 agosto 1965).
Le voci sui disordini nello Utah però, secondo lo studio di Blythe, rappresenterebbero anche un caso di utilizzo e di fomentazione delle dicerie a fini politici, un fattore che a nostro avviso gli attuali studiosi di leggende contemporanee spesso tendono a trascurare.
Il 2 settembre, infatti, prima che prendessero dimensioni rilevanti, Reed Benson, uno dei dirigenti di un’organizzazione ultraconservatrice (la John Birch Society, per la quale il movimento per i diritti civili era in mano ai comunisti), inviò una memoria a tutte le sezioni dello Utah: chiedeva in modo esplicito che fosse avviata una campagna di dicerie secondo cui elementi di sinistra stavano organizzando manifestazioni violente a Salt Lake City, in coincidenza con l’assemblea mormone. Benson era convinto che ben presto le voci sarebbero state fuori controllo e che nella popolazione sarebbe maturata la convinzione che non ci si poteva fidare della lealtà democratica dei capi del movimento per i diritti civili.
Nello Utah ci fu solo un quotidiano importante che non cadde nella trappola, il Daily Utah Chronicle. Gli altri alimentarono le leggende su nefasti eventi che si stavano preparando a perturbare l’annuale conferenza mormone di Salt Lake City.
Quell’anno la manifestazione si svolse senza alcun problema. Non ci furono bombe, attentati, disordini, bande di armati pronte ad attaccare gli appartenenti a quella confessione religiosa.
Quando il clamore si spense, il 5 ottobre 1965, un editoriale stigmatizzò apertamente i cittadini, i capi della comunità e i media, non solo per aver dato retta a “chiacchiere da bar”, ma pure per non aver capito the evil nature of rumors (“la natura malvagia delle voci”), ossia quello di avere per sua base la paura, una paura tanto pervadente, quanto basata su un’evidenza pari a zero.
Nel 2020, negli Stati Uniti, abbiamo incontrato di nuovo queste voci che hanno per centro l’odio per l’avversario politico: quelle secondo le quali il Paese stava per essere invaso da truppe cinesi invitate dai canadesi; quelle per cui manifestanti di sinistra liberavano animali feroci nelle città in cui manifestavano; quelle per le quali Detroit, città abitata in larga misura da afroamericani, stava per essere invasa da bande di razzisti organizzati in squadre sanguinarie...
Continueremo a monitorare con cura la situazione: tutto indica che, nel 2022, in America le tensioni sociali, culturali ed economiche proseguono. E questi elementi, in modo invariabile, di norma contribuiscono a suscitare dicerie più o meno surreali.
Nell'immagine in evidenza: i tafferugli di Salt Lake City del 30 maggio 1965. Fonte: archivi del Salt Lake Tribune, negativo n. 18528a.
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