articolo di Paolo Toselli
Vent’anni fa si verificava un evento unico nel suo genere per il nostro paese. Era il 2004, primo weekend di novembre, quando nel capoluogo piemontese si svolgeva il primo convegno internazionale sulle “Voci, bufale e leggende metropolitane nell’era di Internet”. Organizzato dal CeRaVoLC insieme al Gruppo Piemonte del CICAP, presso il prestigioso Centro Congressi Torino Incontra, col patrocinio e contributo della Città di Torino, della Regione Piemonte e del mensile Focus. Dopo un anno di riunioni, oltre duemila mail, centinaia di telefonate e una ventina di persone coinvolte nell’organizzazione, si realizzava un sogno.
Più ancora di altri campi di ricerca, lo studio delle leggende metropolitane non solo interessa ricercatori professionisti (antropologi, psicologi, sociologi), ma attira anche una moltitudine di ottimi dilettanti, che costituiscono una rete di “osservatori” sul nascere e lo svilupparsi di narrazioni che sarebbe altrimenti difficile da ricostruire. Uno degli scopi del convegno fu proprio quello di far incontrare i professionisti della ricerca con gli appassionati. La manifestazione ebbe pertanto una natura molteplice: quella di convegno scientifico in cui presentare i risultati delle proprie ricerche e d’incontro con altri ricercatori, e quella di convention di appassionati e di evento divulgativo per il
pubblico. Per la prima volta si radunarono tutti i massimi esponenti della materia, sia italiani sia europei, e si diede spazio ad un’ampia sessione poster, dove fu presentata una decina di contributi, oltre a una mostra antologica sulle leggende metropolitane,
La manifestazione fu assai apprezzata sia per il tema inedito sia per i contenuti estremamente qualificati, oltre che diversificati nell’approccio alle varie tematiche. Ottenne un rilevante successo di pubblico a cui si affiancò un notevole interessamento da parte dei mezzi d’informazione. Furono oltre trecento le persone che ci onorarono della loro presenza, attenta ed estremamente interessata. Il tutto si concretizzò nel libro Le nuove leggende metropolitane (Avverbi, Roma, 2005), curato da me assieme a Stefano Bagnasco, che raccolse tutte le relazioni e alcuni poster.
Il convegno fu aperto da un’intervista esclusiva a Jan Harold Brunvand, già professore del Dipartimento di Inglese dell’Università dello Utah, cioè, a colui che fece conoscere al grande pubblico, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, il concetto di leggenda urbana. Brunvand sottolineò l’importanza del fenomeno di cui ci occupiamo.
Per quanto riguarda le ragioni per cui studiare questi racconti, beh, penso che non abbiamo bisogno di motivi, tutto ciò che fa parte della cultura merita di essere studiato. Qualsiasi cosa sia, una barzelletta o una fiaba, o una superstizione, vale la pena si essere studiata perché ci dice sempre qualcosa sul tempo, il luogo e la situazione nella quale vengono raccontate.
Anche ora che queste storie vengono così tanto diffuse attraverso internet - malgrado si perda l’interazione interpersonale e la varietà delle storie che deriva dal passaparola - penso valga la pena raccoglierle e studiarle, perché questo ci aiuta a capire di cosa la gente ha paura o che tipo di insegnamenti cerca di trasmettere quando racconta queste storie. Oppure, semplicemente, dal punto di vista dello studioso di folklore, serve per capire come questo modo di trasmettere le storie le modifica.
Quello che abbiamo di fronte è una sorta di laboratorio permanente: invece di studiare le antiche leggende noi possiamo osservare come queste storie si trasformano e diventano tradizioni moderne.
Ma su cosa si concentrarono i relatori succedutisi sul palco nelle due sessioni, la prima moderata dal giornalista scientifico Piero Bianucci e la seconda da Massimo Polidoro, all’epoca segretario nazionale del CICAP? Lo sintetizziamo qui di seguito.
Le relazioni
Peter Burger, Università di Leiden, Olanda, raccontò un’ondata di panico che si scatenò nel suo paese nell’autunno 2003. Si raccontava come la cosiddetta “banda del sorriso” assalisse le donne, obbligandole a scegliere tra subire uno stupro o ricevere uno smiley. Chi optava per lo smiley avrebbe ricevuto una rasoiata sul volto, che lasciava un’orrenda cicatrice a forma, per l’appunto, di sorriso. Storie simili sono poi circolate in Belgio e in Francia. Burger evidenziò come le leggende non sono solo narrate, ma come vengano anche vissute. In numerose città alcuni giovani terrorizzavano le donne spacciandosi per membri della gang, ed almeno due ragazze si dissero falsamente vittime delle violenze. Inizialmente propagatasi di bocca in bocca, la leggenda della “smiley gang” ebbe una grande diffusione anche attraverso tutti i media. Lo studioso sottolineò come nonostante i media più istituzionali riportassero sistematicamente le smentite della polizia e lo scetticismo degli esperti, è probabile che questa pubblicità avesse aumentato piuttosto che ridurre il numero di persone che avevano creduto vera questa storia.
Nel breve periodo, dunque, per Burger negare una leggenda tendeva a peggiorare la situazione.
Marino Niola, dell’ Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, si concentrò sulla sua città. Una secolare stratificazione di mitologie, di folklore, di leggende, di stereotipi fanno di Napoli, un luogo dalla virtualità simbolica inesauribile, una delle capitali dell'incredibile. Ciò che appare manifestamente assurdo diventa verosimile se ambientato nella città partenopea, che risulta un’autentica location dell'immaginario, dove tradizioni e immagini ad alta definizione, proprio perché fortemente locali, vengono trasformate in icone globali.
Laura Bonato, dell’Università di Torino, sottolineò l’importanza delle leggende metropolitane come oggetti legittimi dell’antropologia. Senza dubbio, le leggende del passato raccontano una cultura ricca e antica, fatta di saperi, di sistemi simbolici, di logiche del concreto che si perderanno se gli antropologi non le “salvano”. Le leggende metropolitane, invece, non sono ancora diventate tradizioni: anzi, fino ad allora - con troppa faciloneria, a suo avviso - si era sostenuto che le leggende metropolitane non sarebbero state portatrici di niente, e che rifletterebbero la globalizzazione. Ancora influenzati dalla nostra tradizione di studi, si tendeva a rifiutare la cultura di massa, rifuggendo da ciò che è moderno, a meno che non vi si scorga una “sopravvivenza” del passato. Ma la raccolta e la classificazione, basata sulla diversificazione degli intrecci narrativi avevano già allora evidenziato che esisteva una corrispondenza tra i racconti del passato e le narrazioni contemporanee. Era questo, dunque, lo stimolo alla tutela, il motivo che induce a considerarle un patrimonio da salvare?
Lorenzo Montali, dell’Università di Milano-Bicocca, oggi ordinario di psicologia sociale presso quella sede e presidente del CICAP, dopo aver precisato che esisteva un’ampia letteratura che aveva ormai da tempo segnalato come una delle funzioni delle leggende era quella di aiutare un certo gruppo a familiarizzarsi con una realtà nuova o con oggetti sociali in qualche modo indefiniti o estranei, evidenziò che questa interpretazione, seppur spesso giustificata, correva talvolta il rischio di fornire una rappresentazione riduttiva di questi racconti, che li qualificava come descrizioni inadeguate e variamente imprecise di una certa realtà. Ma che succede - si chiedeva Montali - quando voci e leggende sono condivise anche da chi è esperto in un certo settore, o quando sono trasmesse anche grazie al passaparola degli esperti? Per rispondere a questa domanda Montali si concentrò sull’analisi di alcune leggende legate alle nuove tecnologie, con l’obiettivo di evidenziare che, invece di essere classificabili come il sottoprodotto irrazionale di una cultura, queste storie potevano essere considerate come uno dei modi “normali” attraverso cui un gruppo costruisce il proprio sapere e trasmette significati rilevanti.
Mariano Tomatis, allora membro del coordinamento regionale piemontese del CICAP , spiegò di essere riuscito a costruire - in quasi dieci anni - un corpus leggendario completamente fasullo, “dimostrando” che il Santo Graal, la reliquia della Passione di Cristo, si trovava sepolta in un piccolo paesino delle prealpi piemontesi, Torre Canavese. Attraverso una meticolosa e volutamente ambigua ricostruzione storica, orchestrata con un allusivo studio simbolico, una serie di arguzie enigmistiche ammiccanti e diverse riflessioni geometrico/topografiche, Tomatis aveva parodiato una certa letteratura fantarcheologica, così denunciando la grave mancanza di rigore sottostante. Il risultato? Convegni, dibattiti, articoli a sostegno delle sue teorie, traduzioni in altre lingue su siti web ignari dell'origine della leggenda. Nel corso del suo intervento, Tomatis espose i (falsi) risultati delle sue indagini e i (veri) trucchi utilizzati per rendere verosimile una teoria evidentemente insostenibile, con una ricchissima carrellata iconografica di simboli, affreschi, edifici e statue che sembravano provare l'impossibile, e cioè che - come raccontò anche Umberto Eco nel suo romanzo Baudolino - il calice di Cristo riposerebbe in un piccolo paese del Piemonte.
Chi scrive, invece, descrisse in quell’occasione l’emergere e lo sviluppo delle voci circolate a partire dalla metà degli anni ’80 su bambini scomparsi, rapiti, venduti e uccisi per essere immessi sul mercato clandestino degli organi. Approfondendo cosa c’era dietro alle notizie di stampa o alle affermazioni di politici, religiosi, uomini di legge che sostenevano la realtà di questo turpe traffico, ricordò le indagini ufficiali di polizia e magistratura contrapposte alle leggende (dall’ambulanza nera alle sparizioni nei parchi divertimento) e la disinformazione prevalente in quegli anni, cioè, nel periodo finale della guerra fredda. Significativo il ruolo dei media nell’alimentare la leggenda e la costruzione della realtà sociale in funzione del conflitto tra poveri e ricchi, paesi oppressori e popolazioni oppresse.
Danilo Arona, scrittore e critico cinematografico, prese in esame l'irruzione del leggendario fra i media d'intrattenimento, tentando di farne una storia e di delinearne una mappa. Partendo dagli anni ‘50 elencò i film in cui i nuclei leggendari hanno trovato "ospitalità", spiegando anche le ragioni antropologiche e/o psicanalitiche, in senso junghiano, per cui certe storie arrivavano al cinema all'interno di una sorta di paradosso (erano credute "vere", il cinema regalava loro una carta d'identità "fantastica", rischiando così di diventare più "vere", perciò più credibili...).
Carlo Presotto, attore e drammaturgo, raccontò di una particolare intrusione del leggendario contemporaneo nel teatro: un animale dal lungo “pedigree” leggendario, il pesce siluro, ritornato nella prima metà degli anni ’90 con insistenza sulle bocche dei narratori del Nord Italia. A questa fioritura di voci si era ispirata una particolare installazione di Presotto, che raccontava di un laghetto di pesca sportiva, della sparizione di tutti i pesci, di due subacquei terrorizzati e delle varie ipotesi sulla apparizione dello “squalo” di fiume.
Paolo Attivissimo, oggi popolarissimo debunker e allora soprattutto divulgatore informatico, ideatore e gestore del pionieristico Servizio Antibufala (qui potete trovare l’archivio), spiegò, attraverso alcuni esempi, come fiutare, indagare online e smascherare bufale e mezze verità diffuse tramite la rete con strumenti già allora a disposizione di chiunque.
Jean-Bruno Renard, dell’Università Paul-Valéry, Montpellier, Francia, presentò una dettagliata analisi di una leggenda urbana diffusasi nel giugno 2000 in Israele, quando la stampa locale riportò un aneddoto con protagonisti una giovane donna in minigonna e un gruppo di ebrei ultraortodossi su un autobus. Il racconto fu analizzato seguendo la griglia di lettura già utilizzata da Renard nel suo volume Rumeurs et légendes urbaines: da una parte, evidenziando la struttura narrativa, tipica delle fiabe; dall’altra, studiando i due livelli di interpretazione delle leggende urbane, sociologico e mitologico, mostrando come questo aneddoto rifletteva il problema della posizione della donna in Israele e come tutto si reggesse su un simbolismo del corpo in cui si mescolavano le figure mitiche di Eva e di Medusa.
Cesare Bermani, storico e autore di un volume antesignano sulle leggende metropolitane nostrane, Il bambino è servito, approfondì i rapporti tra leggende contemporanee e politica, affrontando temi del passato ed altri più recenti, come le bufale sui campi di concentramento nazisti, l'antisemitismo, il revisionismo storico e i presunti assassini albanesi.
I poster
Oltre alle relazioni su invito, che fecero la parte del leone, interesse suscitarono anche i poster presentati in un’apposita sessione da appassionati e ricercatori indipendenti che costituivano già allora una rete di “osservatori” dedita a raccogliere, catalogare e analizzare voci e leggende.
Stefano Pace, della Bocconi di Milano, propose un meccanismo di distorsione cognitiva, la pseudo-diagnosticità, per spiegare la diffusione di alcune leggende e la loro credibilità, attraverso l’esempio del messaggio via mail che invitava a cancellare dal computer un (finto) virus informatico, il “Bear Virus”.
Nicola Pannofino, allora giovane ricercatore del Dipartimento di scienze sociali dell’Università di Torino, analizzò il meccanismo delle voci emerse a seguito del presunto avvistamento nel 2002 di una pantera in quel di Ceriana, un paese dell’entroterra imperiese, sostenendo che le leggende urbane sarebbero storie che si formano mediante un processo di costruzione retorica ad opera di un gruppo sociale (una costruzione narrativa polifonica) che per un dato tempo si costituirebbe come “comunità interpretante”, ossia come collettività impegnata a rielaborare un’interpretazione della realtà messa in crisi da uno o più eventi che violerebbero la canonicità delle aspettative riferite a una determinata situazione.
Alessandro Piccioni, in qualità di ricercatore e appassionato, espose i motivi che lo avevano condotto nel gennaio 2003 a creare e gestire un portale dedicato al mondo delle leggende metropolitane e al folklore contemporaneo italiano - di recente trasformato in un podcast.
Laura Fabbri, centrò il suo poster sulle radici storiche del tema dell’animale non compreso, da San Boninforte alla leggenda del doberman soffocato, poster di cui si può leggere un aggiornamento qui.
Due altri poster furono presentati da altrettanti gruppi di studentesse universitarie in collaborazione col Dipartimento di scienze antropologiche dell’Università di Torino. Una ricerca si concentrò sulla raccolta e analisi delle leggende ambientate in università, l’altra sulle leggende a sfondo sessuale. Altro poster incentrato sulla raccolta e sull’analisi delle leggende universitarie basato su una ricerca svolta presso l’Università di Padova fu proposto da Fabio Lo Cascio, allora studente della Facoltà di Psicologia,
Non mancò una fruttuosa tavola rotonda conclusiva e la proiezione del cortometraggio Chi non muore si ripete di Igor Mendolia e Guido Norzi, un’originale riproposizione filmica della celeberrima storia dell'autostoppista fantasma, che troverete qui.
E il futuro?
Sull’onda di quella fruttuosa esperienza, avremmo voluto festeggiare i trent’anni di attività del CeRaVoLC, un traguardo non scontato, con un nuovo convegno sempre a Torino nell’ottobre 2020. Era quasi tutto pronto, compreso il programma e una prestigiosa location, ma le restrizioni causate dalla pandemia ci suggerirono di soprassedere. C’è però la concreta speranza di riuscire a riproporre un evento simile nel prossimo futuro.
Stiamo dunque progettando una serie di iniziative per l’autunno 2025 in occasione dei 35 anni del nostro Centro. Vi terremo aggiornati!
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