Articolo di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
A fine 2018, nel parlare del rapporto fra leggende metropolitane e alcuni racconti di Dickens avevamo toccato anche il modo in cui lui si occupò della leggenda delle salsicce umane.
Leggende che narrano di insaccati e di cose simili fatte usando carne umana in maniera sistematica da gente senza scrupoli. Un prodotto opera di gente avida di soldi, incapace di fermarsi davanti all’orrore, oppure create in serie dai vostri più terribili nemici, magari in tempo di guerra o di fortissime tensioni politiche.
Proprio questo è il tema tema del quale proveremo a dirvi con maggior dettaglio grazie a una piccola serie di pezzi: quello della vendita, della distribuzione e della preparazione consapevole di carne umana fatta per persone inconsapevoli di consumarla.
Di norma questa produzione passa attraverso uccisioni destinate in modo esplicito a quelle che chiameremo salsicce umane. In altri termini, queste leggende narrano un processo produttivo organizzato in modo “tecnico” per disporre di cadaveri non reperiti in altri modi - ad esempio - sottraendoli in camere mortuarie, nei cimiteri, ecc.
Il tipo di storia che ci ha incuriosito è del tipo di quella che apparve sul Corriere d’Informazione di Milano del 6-7 dicembre 1946.
Budapest, 6 dicembre, mattina Secondo le ultime indagini della polizia, ben nove persone sono ree confesse di aver assassinato uomini e donne, le cui carni servirono per fabbricare salsicce, vendute poi sul mercato nero di Vienna. Un rapporto della polizia ungherese, diramato dall’agenzia telegrafica MTI, riferisce che a capo della banda dei criminali salsicciai si trovava un agricoltore, tale Michael Bogdan, il quale conferma di aver commesso gli assassinii per motivi politici e di avere pensato in un secondo tempo di utilizzare la carne umana per farne oggetto del mostruoso traffico commerciale. Un altro contadino, Joseph Toth, ha confessato di aver ricevuto la somma di centomila fiorini per l’uccisione di un ufficiale di polizia. E’ risultato frattanto che la maggior parte dei componenti la banda dei salsicciai aveva fatto parte delle SS ungheresi al tempo dell’occupazione nazista. Negli ultimi tempi i criminali si erano tenuti nascosti fra i boschi che circondano il lago di Neusiedl. Da fonti austriache si dichiara tuttavia che non è stato ancora riscontrato che nei mercati clandestini della capitale abbiano fatto la loro apparizione salsicce confezionate con carne umana. Tutte quelle che si son potute esaminare avevano l’aspetto delle normali salsicce di maiale.
Un paio di dispacci della United Press da Budapest, il 2 e il 4 dicembre, avevano fatto circolare in mezzo mondo la storia: due poliziotti ungheresi erano stati bolliti insieme a carne di maiale, un funzionario di polizia confermava che "almeno mezza tonnellata di carne umana" era stata venduta in zone di confine tra Austria e Ungheria, ossa di varie vittime erano strate trovate in un cimitero ebraico...
Ora, questa notizia sarà senz’altro fondata su una solida realtà, ma il gusto che possiede è del tutto coerente con lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, “l’aria che tira”.
Uno Zeitgeist sospeso fra gli orrori di ogni tipo dell’Europa centrale di quegli anni di metà Ventesimo secolo - quelli nazisti e poi quelli sovietici - carico di toni da cinema espressionista, da gotico mitteleuropeo, da contadini pingui e rubicondi in calzoni di cuoio e in giacche verdi in stile bavarese che divorano salsicce bianche senza riflettere troppo, per non poter destare il nostro interesse malato da nipotini dei maestri del sospetto.
La cosa curiosa ma non troppo è che due mesi e mezzo dopo la comparsa di questa storia in Ungheria, cioè in un Paese centroeuropeo passato dall’alleanza con i nazisti alle delicatezze dei vincitori sovietici, una vicenda analogo esplose in Estonia, cioè in uno Stato dell’Europa orientale che aveva perso l’indipendenza pochi anni prima, nel periodo in cui nazisti e sovietici erano alleati.
In anni recenti sulle salsicce umane dell’Estonia è stato prodotto uno studio monografico di grande importanza. Ne è autrice la folclorista estone Eda Kalmre, che nel 2013 ha pubblicato “The Human Sausage Factory. A Study of Post-War Rumour in Tartu” (Amsterdam, Rodopi).
Si tratta di un lavoro per noi fondamentale, sia perché ricostruisce in dettaglio un ciclo di dicerie che circolarono nella città di Tartu nel 1947 circa la vendita di salsicce umane in un mercato cittadino, sia perché colloca quel ciclo in una serie più lunga di tradizioni locali e in un quadro culturale più ampio. Se volete approfondire le questioni che noi tocchiamo a volo d’uccello vi consigliamo di procurarvelo. Intanto potete leggerne una recensione apparsa nel 2014 sul Journal of Ethnology and Folkloristics.
Nel 1947, dunque, il quadro della società estone era fosco. La polizia politica sovietica, la NKVD, sorvegliava qualsiasi forma di sia pur larvato dissenso e i danni della guerra erano tali che il problema del cibo risultava angosciante. Per Kalmre furono queste le condizioni di base per la riemersione di storie e di motivi già presenti nella cultura popolare locale.
Nel caso estone del 1947 il diffondersi del mito della produzione di salsicce umane andò di pari passo col problema - centrale in quel contesto - della minaccia dell’”altro”, della presenza dello straniero opprimente. Sballottata nel corso della prima metà del Novecento tra padroni russi, tedeschi e sovietici, la repubblica baltica non potè che identificare i mostruosi produttori su scala industriale di ciò che mancava - il cibo - nei nuovi padroni venuti da Est.
Anche il sentimento antisemita di parte della popolazione estone giocò la sua parte. L’accusa tradizionale del sacrificio di bambini a fini rituali rivolta contro gli ebrei si unì in più di uno all’idea che le alte gerarchie sovietiche fossero in buona parte appannaggio di ebrei. Ma, quasi come contraltare, lo studio di Kalmre deduce che in qualche modo la diceria del 1947 ebbe pure la funzione di discriminare fra gli stranieri in senso positivo, perché a quanto pare i tedeschi, che pure avevano parecchio da farsi perdonare dagli estoni, al contrario dei russi non furono considerati in nessun momento responsabili degli osceni traffici, come invece era avvenuto pochi mesi prima in Ungheria.
Ecco il plot narrativo fondamentale. Una donna, sia pur ferita a colpi d’ascia, riesce a fuggire da un edificio in rovine di Tartu dove i Russi macellano le persone dopo averne scaricato i cadaveri da camion. Malgrado l’allarme dato alla gente da questa vittima mancata (una lattaia cui un russo, per attirarla in trappola, aveva chiesto di andare a vendere a soldati dell’Armata Rossa il latte nell’edificio in questione), all’arrivo della polizia locale Russi e cadaveri scompaiono. La copertura del crimine è perfetta.
In una sua interessante discussione sul lavoro di Kalmre fatta per il sito della rivista Il Corpo, lo psicologo sociale Enrico Pozzi ha parlato della localizzazione della fabbrica diroccata come punto in cui avviene la produzione mostruosa (una questione sempre rilevante, nel mito delle salsicce umana), come del
...luogo di confine sul limite dello spazio sociale (la fabbrica in rovina, isolata dal filo spinato e poco accessibile, anomica, quasi estranea alla città al cui centro però si colloca)...
Una notazione interessante, questa sul nonluogo come proscenio della narrazione orale, perché fa il paio con quanto molti anni fa avevano sottolineato due storici della letteratura anglosassone, Adam Brooke Davids e Gerd Hurm, quando sulla rivista New Literary History avevano analizzato un racconto pubblicato nel 1868 da Mark Twain, Cannibalism in the Cars, in cui un uomo, durante un viaggio in treno, racconta a un compagno di viaggio che quindici anni prima era sopravvissuto in un treno bloccato per la neve (ambiente confinati, liminale) cibandosi della carne di altri viaggiatori uccisi all’uopo.
Nella generale carenza di carne per alimentarsi fra gli anni della guerra e quelli immediatamente successivi, in Estonia circolarono storie di ogni tipo circa contaminazioni di cibi con carne di animali e sostanze di vario genere - un classico delle leggende metropolitane - e, scrive Kalmre, non sorprende che al centro delle nostre voci ci fosse, oltre alla ex-fabbrica, il mercato centrale di Tartu. Questo luogo aperto al pubblico, un punto simbolicamente importante dell’identità cittadina, nel 1947 era anche uno dei pochissimi posti in cui, sia pur a prezzi elevati, si riusciva a trovare prodotti di qualità forniti da allevatori non del tutto annichiliti dalla centralizzazione economica comunista.
In questo senso, per Kalmre le leggende sulle salsicce umane ebbero anche la funzione di far narrare a una parte degli estoni qualcosa su modi di vivere diversi da quello sovietico che era stato imposto e in cui. in sostanza, nessuno avrebbe più potuto pensare di procurarsi beni economici in abbondanza.
L’incontro fra il luogo simbolo di un perduto benessere (il mercato di Tartu) e la pervicacia della presenza sovietica produsse il cortocircuito del mito della produzione di salsicce umane e dei relativi rapimenti su larga scala.
Sia pur sulla base di un campione ristretto di interviste a persone che ricordano la leggenda del 1947, Kalmre si è fatta l’idea che chi aderì al conformismo del sistema sovietico tese a considerare la storia come falsa, chi invece col regime comunista ebbe guai o comunque nutrì rancore nei confronti delle autorità la ritenne affidabile per tutta la vita, magari aggiungendo al filone principale ulteriori dettagli tipici di queste narrazioni, come la scoperta di dita o di anelli nella gelatina di carne, e così via.
Certo è che l’Est dominato dai sovietici dovette essere un terreno di coltura eccezionale per le nostre storie almeno dagli anni della guerra civile russa del 1917-22 sino a tutti gli anni ‘50. Impossibile qui seguire tutti i rivoli di questo torrente in piena. Con un’avvertenza: purtroppo, nel corso della storia della guerra civile russa e poi sotto la dittatura sovietica, un certo numero di episodi di cannibalismo deve ritenersi documentato a sufficienza come reale. Un consiglio di lettura fra tutti: “La tragedia di un popolo” (Mondadori), libro dello storico britannico Orlando Figes, uscito per la prima volta nel 1996.
Ciò che a noi interessa, però, è l’aspetto antropologico e il lato fantastico di queste narrazioni.
Già ai primi di aprile 1919, dispacci di stampa provenienti da San Pietroburgo, nel parlare della fame che attanagliava l’immenso Paese, annunciavano che si riteneva che la poca carne in vendita a prezzi altissimi fosse un impasto di carni umane e di carne di cane, e che c’erano parecchi cinesi in attesa di processo per aver offerto carne umana nei mercati all’aperto.
Agli inizi di maggio del 1920, stando all’agenzia Reuter, il quotidiano russo Novaya Russkaya Zhizn raccontò che nel luglio precedente un abitante di San Pietroburgo aveva acquistato a carissimo prezzo quattro libbre di carne di manzo, ma che, insospettito dall’odore e dall’aspetto, scoprirono poi - stando ad un altro quotidiano - che un medico aveva scoperto della carne dall’apparenza simile nel mercato di Sitmy e che a un esame microscopico era risultata carne umana.
I particolari erano super-horror. La carne era stata venduta a una commerciante - ancora una volta - da un cinese incarcercato nella fortezza di Petropavlovsk il cui compito era quello di finire i condannati sopravvissuti alla fucilazione! Sotto minaccia di morte aveva confessato che quella che aveva spacciato alla commerciante era davvero carne umana...
Nel giugno di due anni, dopo (1922) su un settimanale russo del quale non sappiamo di più, fu la voce autorevole del poeta simbolista Maximilian Voloshin (1874-1932) a descrivere in una lettera la carestia terribile che devastava la sua terra d’origine, la Crimea (Voloshin era per metà ucraino, per metà tedesco), i morti di fame, l’impossibilità di nutrirsi per le devastazioni belliche, spiegando:
Una volta il cannibalismo era un mito. Ora è divenuta realtà. Salsicce fatte di carni umane si vendono nei bazar. Naturalmente vengono confiscate. Nel villaggio di Malaya Tarakhta in un giorno è stata scoperta l’uccisione di dieci bimbi, così che le loro carni potessero essere vendute agli affamati, e ci sono stati casi di linciaggio dei cannibali. Lo stesso giorno è stato scoperto in un altro villaggio la metà del corpo di un bimbo messo a bollire in un calderone. Apprendere tali cose rende la vita insostenibile. Il cannibalismo si estende ad un ritmo sorprendente. Si è giunti al punto che le madri uccidono e mangiano i loro stessi figli. Alcuni giorni fa in un villaggio è stato chiamato un medico perché esaminasse della carne salata, e questi ha scoperto che si trattava delle carni di un ragazzo. Era stato ucciso davanti al fratellino minore.”
Così riportava quelle affermazioni il 2 settembre 1922 il quotidiano australiano The Journal, che pure, stando ad altri giornali come The Gazette di Montreal, doveva riportare solo una parte di quanto uscì sul settimanale russo.
D’altro canto, in quella stessa edizione The Journal aggiungeva un’altra notizia:
Secondo un messaggio da Helsinki, un medico di nome P. Krylov, già membro del Parlamento russo è rimasto vittima del cannibalismo presente in alcune zone della Russia colpite dalla carestia. Viveva a Samara, nel sud, e di notte è stato chiamato al capezzale di un paziente. Visto che non tornava, sono partite delle indagini e si è accertato che era stato aggredito, ucciso e mangiato.
Altri quotidiani australiani ci dicono che in realtà la prima notizia sulla storia del medico divorato risaliva al 26 luglio, quando era arrivato un dispaccio da Helsinki via Copenaghen secondo il quale l’imboscata a Krylov era stata tesa da un gruppo di uomini e che davvero il medico era stato un deputato della Duma, il parlamento russo, prima dell’instaurazione della dittatura.
Nel 1923 Voloshin menzionerà le salsicce di carne umana in una sua poesia, Russia, in cui dirà, fra l’altro, che perché qualsiasi cosa accada, in Russia, solo la fede è possibile, e allora, davvero, ogni cosa più incredibile diventerà vera, “mentre mangiamo salsicce fatte di carne umana”.
L’intreccio tra fantasie nere e tremenda realtà produsse però anche esiti se possibile ancora più tremendi.
Quando nell’aprile del 1937 uno dei maggiori responsabili del terrore comunista del tempo, l’ex-capo della polizia politica sovietica, Genrich G. Jagoda (1891-1938) fu arrestato per ordine di Stalin in uno degli innumerevoli turbinii di incarceramenti, torture ed esecuzioni di quella fase, fu incolpato di innumerevoli crimini. Molte delle accuse riguardavano la sua sessualità, cosa considerata già ampiamente degna di condanna senza appello. Fra le tante, ve ne ricordiamo una: commercio di carne umana all’ingrosso, grazie alla quale si sarebbe arricchito (La Stampa, 6 aprile 1937).
Nel 1952, dunque ormai ben sette anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dal quotidiano svedese Expressen del 23 ottobre sappiamo invece che in Polonia la stampa di regime, in particolare quella di Stettino, aveva annunciato l’arresto di una banda di borsari neri che aveva venduto la carne di una quarantina di persone. Uno dei criminali, certo Cyppka, era stato condannato a morte. La banda era composta da un macellaio, dalla cassiera di un cinema e da altre due donne. Come succede sovente nella struttura narrativa delle storie sulle salsicce umane, mentre il macellaio è l’esecutore del compito tecnico più complesso, il ruolo più odioso è svolto da chi carpisce la buona fede della vittima inducendola in trappola. Inutile dirlo, nella storia polacca dell’autunno 1952 questa funzione è svolta dalla cassiera, che, piena di sorrisi, chiede alle vittime designate di portare un pacchetto in una casa di fronte al cinema. In quella casa li attende il macellaio Cyppka, che li fa a pezzi poi vendendoli, come commenterà il “Corriere della Sera” del 24 ottobre, “a prezzi elevatissimi” (la resa economica elevata del commercio di carne umana è elemento ricorrente delle nostre storie).
Come in altre vicende simili, l’emersione del traffico è dovuta a una vittima mancata. Una certa Irena Jarosz si reca nell’appartamento di Cyppka, vede su un tavolo una mano, il marito della Jarosz s’insospettisce non vedendola rientrare subito e allora chiama la polizia che irrompe in casa scoprendo in uno stagno vicino le ossa di una trentina di persone e, infine, in una fossa vicina, quelle di un’altra decina di malcapitati.
Anche la Romania del XX secolo non è rimasta indenne da voci di questo genere. La folclorista Oana Voichici, studiosa di leggende contemporanee, in un suo lavoro del 2017 le ha documentate per un periodo che va dal 1920, subito dopo le conseguenze terribili della Prima Guerra Mondiale anche per quel Paese, agli anni ‘80 del XX, quando il declino della dittatura comunista condusse, tra le altre cose, a una progressiva crisi alimentare e alla relativa scarsità di carne nei negozi controllati dal potere pubblico. Nel caso rumeno ad essere ad essere accusati dei crimini di norma non erano le autorità, ma minoranze religiose, in primo luogo gli ebrei, poi anche comunità perseguitate e in semi-clandestinità come i Testimoni di Geova.
Lo storico ed etnologo Cesare Bermani ha documentato che voci di rapimenti di bambini per la produzione di salami circolavano anche da in Italia, in particolare in alcuni comuni della provincia di Torino nella tarda primavera del 1918, dunque nella fase culminante della Prima Guerra Mondiale, in tempo di razionamento e di leggende di ogni tipo, sulle quali abbiamo documentato vari aspetti, qui, qui e anche qua e qua!
Il 12 giugno di quell’anno la Prefettura di Torino inviò al riguardo una breve relazione al Ministero dell’Interno (documento conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, collocazione: A5G, busta 65, fascicolo 128).
Le storie esemplari di cannibalismo poste nel contesto della degradazione bellica, non ultimo in quello della fame per assedio, hanno storia lunghissima. Intorno al 75 d. C., nella Guerra Giudaica (libro VI, 199-214), Giuseppe Flavio si dilunga sull’episodio di Maria di Bethezuba, una donna che per il terrore e l’inedia provocata dalla stretta dei romani intorno a Gerusalemme durante la rivolta ebraica degli anni del 66-70, finisce per uccidere, fare e pezzi e cucinare il figlioletto lattante, mangiandone metà e nascondendo il resto. Scoperta - questo particolare ci interessa molto - offre le parti rimanenti ai rivoltosi ebrei che l’hanno scoperta. Malgrado Giuseppe Flavio, già ebreo passato al servizio di Roma, avesse in odio i suoi correligionari, il suo furore di propagandista non va oltre, e si limita a raccontare che nemmeno quelli avevano avuto in animo di cibarsi dei resti del piccino.
Una specifica reienterpretazione confessionale del motivo folclorico di Maria di Bethezuba s’incontra sul termine del Medioevo, quando una vasta tradizione attribuisce al predicatore domenicano Vicente Ferrer, poi santo per la chiesa cattolica, l’aver riportato in vita un bambino fatto a pezzi dalla madre impazzita, messo in padella e servito ai familiari e al domenicano, loro ospite a pranzo! La leggenda è rappresentata, ad esempio, nelle Storie di san Vincenzo Ferrer, una tempera parte del cosiddetto Polittico Griffoni. Il dipinto fu realizzato a Bologna nel 1473 da Ercole de’ Roberti ed ora è conservato presso la Pinacoteca Vaticana.
L’ampia tradizione etnologica francese del bambino cotto dalla mamma (o dalla matrigna) e poi servito al padre inconsapevole, con tutti i racconti favolistici che ne conseguono è stato studiato a fondo dall’antropologa Nicole Belmont, che ne ha tratto un lavoro uscito nel 1995 sulla rivista Ethnologie Française.
Per la Germania si può menzionare la “leggenda del ginepro”, che fu utilizzata nei loro racconti anche dai fratelli Grimm.
[1 - continua]
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