Nicky Falkof è una professoressa associata della University of the Witwatersrand di Johannesburg, Sudafrica, dove si occupa di scienza dei media e della comunicazione. A maggio 2022 ha pubblicato il volume Worrier state: Risk, anxiety and moral panic in South Africa (Wits University Press).
Lo studio è un’esplorazione multidisciplinare delle narrazioni della paura nel Sudafrica dominato dai social media e dalle polarizzazioni, aggravate dalle ineguaglianze eccessive fra gruppi sociali ed etnici, fra aree urbane e rurali, fra sudafricani di nascita e immigrati dal resto del continente. La paura, negli anni ‘20 del XXI secolo, in Sudafrica è il sentimento che segna largamente sia l’autopercezione dell’individuo, sia quella del gruppo al quale appartiene. È inoltre un’emozione che fornisce un significato ad eventi grandi e piccoli, e oggetto di forti discussioni nella comunità.
La paura può assumere mille forme: la minoranza bianca che racconta il “genocidio” della sua cultura, le storie più incredibili su rapimenti, torture e uccisioni da parte di imprendibili bande di satanisti, la vasta circolazione di specifiche leggende metropolitane nelle township povere.
Su The Conversation, Nicky Falkof ha riassunto una delle paure descritte in uno dei capitoli del suo libro: un timore, dal nostro punto di vista, assai interessante.
Drogati di tv - ma non come pensate voi
Intorno al 2013 la paura - purtroppo non infondata - della violenza di bande criminali, che in quel periodo saccheggiavano in maniera più aggressiva del consueto case e negozi, fece sorgere in alcune comunità tanto grandi quanto povere come quella di Alexandra il terrore per un nuovo tipo di violenza. Alexandra è un sobborgo a nord di Johannesburg, segnato dalla disuguaglianza e dalla segregazione razziale ereditata dai tempi dell'apartheid. Sviluppato all'inizio del Ventesimo secolo per ospitare circa 30.000 persone, è cresciuto fino ad ospitarne 700.000. Come spiega Nicky Falkof, la sovrappopolazione ha favorito una “potente cultura comunitaria che si presta alla trasmissione di leggende metropolitane”. E dunque, in questo contesto nel 2013 hanno cominciato a diffondersi avvisi a stare in guardia verso un particolarissimo tipo di crimine…
Le bande di ladri, in queste storie, avevano uno scopo specifico: entrare nelle case di Alexandra per portare via i televisori con schermi al plasma, soprattutto quelli di grandi dimensioni. Per farlo, così raccontavano le dicerie, impiegavano sia sistemi “moderni”, sia metodi tradizionali. Il primo consisteva nell’usare strumenti supertecnologici per capire, dall’esterno della casa, se dentro c’era uno schermo al plasma; il secondo, nell’usare la magia muti per far cadere gli abitanti nel sonno più profondo e così poter agire indisturbati. Gli attacchi potevano prevedere un alto grado di violenza e concludersi con la morte dei proprietari dell’abitazione.
Già così la storia sarebbe di notevole interesse, ma c’è altro a renderla peculiare e ad inserirla meglio nell’immaginario moderno di varie parti dell’Africa contemporanea. Non si trattava di rivendere i televisori, ma di smontarli per estrarne una polvere bianca necessaria per fabbricare uno stupefacente usato per strada, la whoonga, o nyaope (un mix di varie sostanze fra le quali l’eroina), a seconda delle versioni, per assumerla o per venderla ad altri che ne facevano uso.
La whoonga è una sostanza stupefacente che provoca euforia e rilassamento; si è diffusa a partire dal 2009, e la sua composizione è oggetto di numerose leggende metropolitane. Si racconta ad esempio che sarebbe composta da sostanze psicoattive (cannabis, metanfetamine, eroina) potenziate però dall’interazione con un farmaco antiretrovirale assai noto in Sudafrica, il ritonavir, utilizzato per il trattamento dell’HIV. In realtà, le analisi sembrano indicare che si tratta di droghe non particolarmente nuove, semplicemente rivendute sotto un nuovo nome, che a volte possono essere tagliate con sostanze varie (vi sono state trovate tracce di topicidi, latte in polvere, ecc.).
Ci troviamo dunque, per così dire, al cospetto di una leggenda che ha al centro un prodotto che già in sé veicola sin dalla sua comparsa storie di ogni genere. È il caso di quanto accadde nel 2017, quando i media sudafricani diedero ampia diffusione alla presunta pratica del “bluetoothing”, cioè alla condivisione della droga tramite piccole trasfusioni di sangue; la pratica è risultata però sconosciuta tra i veri consumatori, e non sarebbe nemmeno plausibile: piccoli trasferimenti di sangue, come quelli possibili tramite una siringa per uso medico, non avrebbero nessun effetto euforizzante nel ricevente.
Tra queste numerose dicerie, come abbiamo visto, c’è anche quella della “polverina” dei televisori al plasma. Falkof spiega che, in concreto, la leggenda è del tutto insensata, tanto più che il “plasma” non è certo una sostanza impiegata in quel genere di televisori, ma il nome di una tecnologia. Quanto alla “polvere bianca”, sarebbe da identificare nel comune ossido di magnesio, usato per rivestire gli elettrodi, che sovente si nota in quel genere di apparati. Ovviamente, non ha alcun effetto psicotropo, e se davvero servisse a sintetizzare la droga sarebbe reperibile molto più facilmente in altri modi (ad esempio, è acquistabile in molti negozi come integratore).
La precarietà sociale, economica e culturale delle township fa da sfondo ai racconti sui furti dei televisori al plasma. Quel che Falkof nota in modo particolare, tuttavia, è che
questo genere di ‘chiacchiere sul crimine’ è endemico in Sudafrica, ma stranamente assente nella letteratura accademica, che spesso associa la paura del crimine al fatto di essere bianchi e ricchi.
Vale la pena, quindi, studiarlo un po’ meglio.
Per altre storie sull’immaginario contemporaneo africano, consigliamo di leggere quanto era già stato scritto sia sul sito del CeRaVoLC, sia in altre sedi. Segnaliamo, in particolare, le storie relative al cellulare killer, le tragiche voci sui vampiri del Malawi e sui gassatori dello Zambia, il terrore per i furti di peni in Nigeria, i furti rituali di biancheria intima femminile, le ipotesi e bufale sul traffico d’organi in vari Paesi del continente, oppure storie ad alto tasso di bizzarria come quella del “gatto taxista” sudafricano” (diffusa a partire da un episodio avvenuto - forse - proprio in un sobborgo di Johannesburg).
Foto di Vidmir Raic da Pixabay
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