articolo di Sofia Lincos
Nel Medioevo esistevano le leggende contemporanee? Sì, lo sappiamo, “contemporaneo” in questo contesto è un termine che richiede qualche prudenza. Il folklorista Bill Ellis, indagando sulle leggende contenute nelle Facezie dell’umanista Poggio Bracciolini (1380-1459), spiegava che non si deve pensare a storie contemporanee a noi, ma che, piuttosto, si tratta di racconti di vicende che chi racconta percepisce come davvero accadute ai suoi tempi (Hæc in Sua Parochia Accidisse Dixit: The Rhetoric of 15th Century Contemporary Legends, Contemporary Legends, n. s., vol. 4, 2001, pp. 74-92).
Ragionando su questa linea, il medievista Richard Firth Green ha documentato una possibile leggenda contemporanea antichissima: una storia che ha chiamato The Vanishing Leper, in analogia con The vanishing hitchhiker (l’autostoppista fantasma). Noi potremmo forse rendere l'espressione come il lebbroso scomparso. La sua ricerca è stata pubblicata nel 2015 in un volume collettivo sulla cultura medievale, Truth and Tales: Cultural Mobility and Medieval Media (The Ohio State University Press, 2015, pp. 19-38).
La vicenda ha per protagonista un lebbroso accolto da una benefattrice che scompare improvvisamente trasformandosi in un mazzo di rose. Indicativa, per poter identificare questo racconto come leggenda contemporanea dell’antichità, è la premessa con cui la narrazione viene introdotta in un manoscritto del 1260 della British Library di Londra, redatto probabilmente da un frate domenicano inglese del monastero di Cambridge:
Un uomo religioso e degno di fiducia mi ha raccontato questa storia riguardo a una certa donna sposata, e vide poi questa stessa donna con i suoi occhi dopo la morte del marito.
Segue la storia:
C'era una nobildonna che nutriva grande compassione per i poveri, e guardava ai lebbrosi con particolare affetto, e prestava loro soccorso diligentemente ogni volta che osava, poiché suo marito era estremamente duro riguardo ai poveri, e in modo particolare coi lebbrosi. Nonostante questo, accadde che un lebbroso bussò alla sua porta quando il suo signore era fuori, e le chiese se lei poteva fargli un bagno. Provando davvero grande pietà per lui, la donna lo condusse di nascosto nella camera del marito e lì con le sue cameriere lo assistette [mentre si lavava] nella vasca.
In seguito il lebbroso le chiese con insistenza se, ora che era stato lavato, dopo il bagno poteva mettersi nel letto del marito. Quando lei glielo ebbe concesso, anche se con grande riluttanza, mentre lui si trovava lì sdraiato nel letto, suo marito improvvisamente giunse alla porta; e lei, udito ciò, gli corse incontro con grande timore. Ora, lui, sospettoso, subito entrò in camera e andò verso il letto ma, sentendo un aroma di una fragranza meravigliosa, si mise a cercare come un così buon profumo potesse essere arrivato lì; giunto al letto, tirò le coperte e vi trovò solo le rose più belle mai viste, che emanavano il loro meraviglioso profumo.
Dopo questo e quando la verità gli fu rivelata, lasciò alla moglie la gestione di tutto il patrimonio, chiedendole di spendere tutte le loro ricchezze per i poveri, in qualunque modo le sembrasse meglio (Royal MS 7 D I, conservato presso la British Library di Londra)
Il manoscritto della British Library non è il solo a menzionare la storia del lebbroso scomparso: il racconto, anzi, circolò ampiamente nel Tredicesimo secolo, a volte con qualche variante.
Green fornisce diversi esempi. La prima apparizione del racconto è opera di un frate agostiniano francese di nome Jacques de Vitry (circa 1160-1240). Fu un celebre teologo e predicatore del suo tempo, e lasciò ai posteri quattro raccolte di sermoni. La più famosa, la Sermones vulgares, comprende anche la storia del lebbroso fantasma, e - di nuovo - la racconta come appresa in prima persona. Anzi, in questo caso il legame tra l’autore del racconto e la protagonista è ancora più diretto: “Conoscevo una certa nobildonna che aveva grande compassione per i malati…". La sua versione è vivida e ricca di dettagli: de Vitry specifica che il tempo è caldo, calca la mano sui personaggi, aggiunge il discorso diretto… Alla fine, il lebbroso svanisce, lasciando dietro di sé il solo profumo di rose. Non c’è, questa volta, un segno tangibile come i fiori trovati nel letto, ma soltanto il gradevole aroma che aleggia nella stanza.
Un’altra versione è quella riferita dal francese Stefano di Borbone (circa 1180-1295), uno dei primi inquisitori domenicani e autore di un’importante raccolta di exempla (storielle esemplari ad uso dei predicatori). Stefano dichiara di conoscere la versione di de Vitry, ma preferisce comunque raccontare la testimonianza che ha raccolto da un confratello e teologo parigino, Geoffroi de Blevex. Qui il viandante accolto non è identificato come lebbroso ma soltanto quale malato e pieno di piaghe. Quando il marito della benefattrice torna a casa, vede qualcuno nel letto e pensando a un amante della donna fa per ucciderlo, ma…
[...] apparve a lui il corpo nudo di nostro Signore nella forma in cui era appeso alla croce e disse: “Perché mi perseguiti, io che ho sofferto questo per te?” [L’uomo] si gettò a terra, ma quando alzò gli occhi non trovò nulla e si convertì al Signore.
Ulteriore versione inglese compare nel Bonum universale de apibus del domenicano belga Tommaso di Cantimpré, composto tra il 1256 e il 1261. Anche questa volta la storia viene raccontata come vera e accaduta a una venerabile signora conosciuta di persona dall’autore. Se ne fa anche il nome: Ada de Belomeir. Poche le varianti rispetto al manoscritto della British Library: lui è un nobilissimus miles, e il mendicante scomparso lascia dietro di sé un letto ricoperto di rose profumate. A quella vista i due coniugi scoppiano in lacrime e lodano il Signore.
La storiella continuò a viaggiare fino al Quindicesimo secolo, ma nei testi più tardi i contorni della leggenda metropolitana s’indeboliscono. Viene piuttosto raccontata come un evento storico, accaduto ai tempi di Stefano di Borbone o di Jacques de Vitry; la versione di quest’ultimo, in particolare, è quella che riscuote più successo: è infatti ripresa in una raccolta di exempla di inizio Trecento compilata probabilmente da Arnoldo di Liegi (l’Alphabetum Narrationum), e da lì tradotta in molte lingue. Ma ormai è diventata una vicenda lontana, letteraria. Mancano le rielaborazioni e le attestazioni di veridicità, ossia quelle in cui l’autore afferma di aver parlato direttamente con i protagonisti del miracolo, o quanto meno con qualche loro conoscente.
A detta di Green, l’unica versione degna di nota è quella di Jean Gobi, domenicano francese e autore della Scala Coeli (1322–30). Ancora una volta, l’autore afferma di ripetere la storia testimoniata da Jacques de Vitry; il finale, tuttavia, è diverso:
Quando la coppia indagò sulla causa [dell’aroma delizioso], scoprì che quello che era stato accolto dalla nobildonna era Cristo.
Cosa identifica, quindi, la storia del lebbroso scomparso come una leggenda contemporanea d’epoca? Secondo Green, rispecchia tutte le caratteristiche del genere.
In particolare:
Viene raccontata come una storia davvero accaduta in un tempo contemporaneo al narratore (in altri termini: non è successa a qualcuno lontano nello spazio e nel tempo, ma a qualcuno di vicino, apparentemente raggiungibile).
In molti casi, la storia proviene da un FOAF (Friend of a friend, cioè il classico amico dell’amico). Nel caso del manoscritto della British Library, ad esempio, il racconto arriva da un vir religiosus fidedignus (“uomo religioso e degno di fede”) che ha visto la nobildonna con i suoi stessi occhi; in altre, il narratore afferma di conoscere direttamente uno o più protagonisti del miracolo. Queste “attestazioni di veridicità” servono a rendere la storia credibile e apparentemente verificabile.
I personaggi sono tipi comuni che si trovano in una situazione abbastanza normale - almeno finché non scatta il finale a sorpresa. L’improvviso ritorno a casa del marito, ad esempio, è un cliché della letteratura medievale (e non solo), fonte di gag umoristiche nei fabliaux e di riflessione negli exempla.
La storia ha una morale facilmente identificabile - nello specifico, quella di essere misericordiosi con i mendicanti e gli sventurati.
È una storia che compare in diverse varianti, e anche se i testi ci sono arrivati in forma scritta, le variazioni sul tema sono abbastanza numerose da far supporre una circolazione in forma orale, parallela a quella scritta.
I racconti della vicenda circolavano, nel Tredicesimo secolo, soprattutto in segmenti specifici della popolazione (in particolare, tra i frati domenicani).
Infine (ma questo tratto non è fondamentale nelle leggende metropolitane) la diffusione della storia ha beneficiato del particolare periodo storico, con la formazione di nuovi centri urbani e di nuclei proto-borghesi di commercianti. Insomma, una fase nelle quale le persone - ma anche i predicatori e le loro idee - cominciavano a spostarsi assai più rispetto ai secoli precedenti.
L’articolo di Green è importante soprattutto perché discute l’eterna diatriba della definizione di leggenda contemporanea. I folkloristi sanno bene che, in molti casi, non si tratta di narrazioni completamente nuove: pensiamo alla cosiddetta accusa del sangue, presente da secoli nel leggendario antisemita e arrivata fino ai giorni nostri con il complottismo di estrema destra di QAnon.
Nel 1985 Gillian Bennett aveva proposto di focalizzarsi non sui temi, ma sul modo in cui questi episodi vengono raccontati: narrazioni di esperienze personali che sono “specificatamente adattate per formulare, difendere, e negoziare un’opinione pubblica”. Se vista sotto questa prospettiva, una caratteristica fondamentale sarebbe la provenienza della fonte, l’amico di un amico. Storie così costruite sarebbero tipiche dell’epoca attuale, e non avrebbero paragoni antichi. Il guaio è che leggende con queste caratteristiche, come hanno mostrato Bill Ellis, Richard Firth Green e altri, esistevano fin dall’antichità. L’attuale linea di pensiero, dunque, è diventata questa: gli uomini dell’antichità si raccontavano leggende contemporanee esattamente come noi. A questo proposito, anzi, consigliamo il libro che Tommaso Braccini ha dedicato alle leggende di Grecia e Roma antiche.
Vista sotto questo sguardo, la storia del lebbroso scomparso suscita anche un’altra riflessione. Il Medioevo è sempre stato considerato l’età del “credere”. Persiste la tendenza a pensare che le persone in questo periodo fossero più irrazionali, prone nel credere alle storie meravigliose e miracolose che venivano loro offerte. Invece, storie come la nostra sembrano mostrare la necessità di profondere un certo impegno per far accettare la vicenda come autentica al proprio pubblico di riferimento. E questo, anche se il narratore è la figura autorevole per eccellenza: l’uomo della religione istituzionale.
Non si tratta di un fenomeno isolato. Il manoscritto “Royal 7 D I” (quello della British Library menzionato all’inizio), ad esempio, contiene una trentina di exempla per i quali l’autore fornisce dettagli di autenticità (storie presentate come vere e attribuite all’amico di un amico, dettagli su tempo e luogo in cui sarebbe avvenuta la vicenda, nomi dei protagonisti…). Si può dire che circa il 10% della raccolta è costruita in questo modo. Lo stesso avviene con altre opere del tempo. Il compilatore del Liber Exemplorum, redatto intorno al 1270-1279, attinge all’esperienza di conoscenti e alle informazioni ricevute da amici in ventisei dei 213 exempla; Jean Gobi, autore della Scala Coeli, fa lo stesso per almeno cinque delle sue storie.
In quest’ottica, l’idea di trovarsi al cospetto di un uditorio irrazionale, affamato di vicende meravigliose e pronto a credere rapidamente a ogni racconto - per quanto eclatante o improbabile - sembra essere un assunto non sostenuto in modo sufficiente dalle fonti.
Come afferma Green:
Coloro che raccontavano leggende contemporanee medievali stavano chiaramente cercando di rassicurare il loro pubblico, soprattutto perché le storie sensazionali, non importa quanto corrette sotto il profilo dottrinale, e a prescindere dal fatto che circolassero all'interno o all'esterno del chiostro, potevano sempre aspettarsi di incontrare il dovuto scetticismo.
Immagine in evidenza: Cristo guarisce un lebbroso. Incisione di Jost Amman, 1571ca. Fonte: Wellcome Images. Galleria: https://wellcomecollection.org/works/dp8wd5zm
Immagine rilasciata in licenza CC-BY-4.0
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