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L’animale generoso, vittima incompresa



Articolo di Laura Fabbri e di Paolo Toselli

Se una penna e un quaderno costano sei euro e il quaderno costa cinque euro più della penna, quanto costa la penna?


La prima risposta che darete, immediata e che sembra tanto facile, è sbagliata. La risposta giusta è a fondo pagina ma quello che ci interessa di più è che questo è un classico esempio di “pensiero veloce” ovvero un ragionamento fatto in fretta, senza valutare attentamente tutte le informazioni, il contesto e altre circostanze.


È una modalità che utilizziamo spesso, è quella più allenata e la prima che si impone. Torna utile per spiegare molte decisioni sbagliate, come quella – appunto – del racconto dell’animale non compreso.


La storia e le sue varianti


È un breve racconto che troviamo nella sua prima apparizione in un’antica favola indiana poi in vari racconti dell’Europa medievale e in una predica italiana del 1427, infine nel cartone animato della Disney “Lilli e il vagabondo” e nelle leggende urbane raccolte dal folklorista Jan Harold Brunvand e non solo da lui.


La trama è semplice e sempre pressoché identica: un uomo si assenta dalla sua casa, lasciando il figlio neonato in culla, custodito dal fidato e amato cane. Al suo ritorno il giovane padre trova la culla rovesciata senza il bambino e vede il cane sporco di sangue. Furibondo lo uccide per scoprire solo dopo che era stato proprio lui a difendere il piccolo – sano e salvo sotto le coperte – da un altro pericoloso animale entrato per aggredirlo. Per esprime la sua riconoscenza costruisce per il cane un monumento che diventa nel tempo oggetto di devozione religiosa, oppure, in altre versioni, per espiare le sue colpe, si da alla vita monastica o parte per la Terra Santa.


Il testo più antico nel quale se ne trova traccia è il Panchatantra, una raccolta di favole indiane che si presume risalga al II o VI secolo dopo Cristo, in cui si parla di un bramino, di un icneumone (mangusta) e dell’aggressione di un serpente.


Il racconto di Gelert, cane fedele.

Il racconto di Gelert, fedele cane del principe Llywelyn il Grande (1173-1240) è il primo nel quale all’ingiusta morte si rimedia con un monumento funebre. Il villaggio prese il nome di Beddgelert, che in gallese significa “tomba di Gelert”. Da qui un proverbio locale: me ne pento come l'uomo che uccise il suo levriero. Una bella storia, ma malgrado tutt’oggi siano visibili a chiunque le pietre tombali dedicate alla memoria di Gelert e del suo padrone, si tratta di un’invenzione di fine 1700 creata ad arte per attirare visitatori.


In Europa il racconto si diffuse come exemplum, breve racconto che i predicatori inserivano nei sermoni per rafforzare il concetto che stavano spiegando. Nel Trattato sui sette doni dello Spirito Santo Etienne de Bourbon (1190 ca – 1261), inquisitore incaricato dalla Chiesa di reprimere le eresie nella diocesi di Lione,racconta la leggenda di San Guinefort, un cane levriero assimilato a un santo e considerato guaritore di bambini (al riguardo potete leggere questo articolo di Sofia Lincos, uscito su Query Online nel 2013). Il frate domenicano riferisce di averlo scoperto tramite confessioni e ricerche.


Sulla sua tomba fatta erigere a Villars-les-Dombes si sviluppò un vero e proprio culto che attirò l’attenzione del frate perché le superstizioni popolari erano considerate dalla Chiesa come allontanamenti dalla vera fede e come tali andavano contrastati. Lo storico francese Jean-Claude Schmitt, negli anni Ottanta del secolo scorso mentre stava effettuando degli studi su alcuni scritti medievali, si imbatté in questa storia. Ne fu affascinato, tanto da scrivere un libro intitolato Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, pubblicato in Italia da Einaudi nel 1982.


Agli inizi del XV secolo, Bernardino da Siena (1380 – 1444) insiste molto sulla superstizione ch’e miracoli non fanno per ogni volta il santo. Il frate, proprio con l’intento di smascherare le credenze superstiziose, narra la storia del povero cane Bonino, ucciso dal suo padrone ma ricordato poi, per ripagare l’ingiustizia, come Bonin Forte con un monumento funebre. Con il passare del tempo, pie donne, credendo vi fosse sepolto un uomo, si voteranno a San Boninforte e come in Francia si sviluppò una credenza locale.


Racconti similari, che inizialmente esistevano come tradizione orale, sono contenuti in una raccolta di storie che dall’Asia sarebbe giunta in occidente al tempo delle Crociate per poi diffondersi in tutta Europa, dalla Scandinavia alla Spagna. L’opera, nota come Il libro dei sette savi, contiene, anche nella versione italiana, la novella “Il cavaliere, il cane e il serpe” dove il cane è il solito levriero che salva il figlioletto del padrone dall’attacco di un serpente.


L’uomo, attirato dalle urla della moglie e delle balie, di fronte all’animale insanguinato reagì tagliandogli la testa. Interessante la morale proposta: la tragedia fu causata per aver dato troppo credito alle parole sconsiderate delle donne.


Tutte queste ricorrenze (vedasi ad esempio The Brahmin and the Mongoose: The Narrative Context of a Well-Travelled Tale, di Stuart Blackburn) dimostrano come il tema dell’”animale fedele ucciso avventatamente” sia ampiamente diffuso nel folklore classico, tanto da essere presente nella classificazione dei racconti popolari Aarne–Thompson–Uther (ATU Index) col codice 178A.


La storia fa parte anche della tradizione popolare giapponese. La ricorda nel 2007 nella sua tesi di laurea Leggende metropolitane giapponesi e italiane Valentina Mascetti, riprendendola dal testo di Richard M. Dorson, Folk Legends of Japan (1977). Questa versione ha come protagonista Minamoto Tametomo, noto samurai vissuto nel XII secolo.


Durante un viaggio nella provincia di Bungo, il giovane fece una sosta per riposare sotto un grande pino. Ad un tratto, il suo fedele cane iniziò ad abbaiare e si scagliò contro di lui. “Di natura brusca e impetuosa, Tametomo impulsivamente sguainò la spada che portava al fianco e tagliò la testa al cane. Ma questa non cadde a terra, al contrario volò verso il pino e azzannò la gola di un grosso serpente che li stava osservando con aria aggressiva dall’albero. L’attacco inaspettato della testa del cane gli provocò una ferita mortale.” Solo in quel momento Tametomo comprese l’imprudenza che lo aveva portato ad uccidere il fedele cucciolo.


Con un salto in avanti nel tempo arriviamo a “Lilli e il vagabondo”, film del 1955: il cane Biagio difende il figlioletto dei padroni di Lilli dall’assalto di un topo di fogna ma non viene capito dai genitori del piccolo che lo vogliono inviare al canile.


La leggenda urbana riportata da Jan Harold Brunvand (Leggende Metropolitane, Costa & Nolan, 1988), che ha imperversato agli inizi degli anni Ottanta negli Stati Uniti e in Inghilterra, è diversa come trama: qui una donna rientra in casa e trova il proprio dobermann sofferente. Impaurita lo porta dal veterinario che trattiene il cane, rimandando a casa la padrona. La donna arriva a casa e riceve una telefonata dal veterinario, tutto agitato. “Ora mi ascolti bene – le dice con un tono carico di allarme – e faccia quello che le dico: deve riagganciare il telefono, poi senza dire una parola deve voltarsi e uscire di corsa da casa sua. Vada dai vicini e aspetti lì la polizia. L’ho già chiamata io. Ora vada! Non mi chieda niente e non abbia esitazioni, esca solo al più presto da lì.”


La donna era spaventata per il messaggio e per il comportamento del veterinario così non perse tempo e obbedì. Nel giro di pochi minuti arrivò una macchina della polizia a sirene spiegate. I poliziotti hanno raccontato che il veterinario aveva trovato due dita ficcate nella gola del cane e aveva immaginato che qualcuno avesse cercato di penetrare nella casa della donna durante la sua assenza, quando il dobermann lo aveva attaccato. Forse il ladro era ancora lì. Poi la polizia aveva perquisito la casa e aveva trovato un uomo nel ripostiglio della camera da letto acquattato in un angolo in uno stato di shock, che cercava disperatamente di bloccare l’emorragia della mano destra dalla quale due dita erano state completamente amputate.


I temi collegati


Abbiamo visto come il racconto si sia prestato nel tempo a diversi scopi. Se Stefano di Borbone e Bernardino da Siena lo utilizzano per reprimere le superstizioni, Brunvand ci parla invece di minacce nascoste e riconoscimenti a posteriori. Nelle sue parole, si tratta di “un cane i cui sforzi per tenere a bada un intruso non vengono capiti”.


In tutte le versioni esposte dell’animale non compreso si riconosce l’azione dello stesso identico bias cognitivo: il protagonista agisce sotto l’impulso dell’interpretazione più semplice, che si offre alla mente senza bisogno di ragionamenti ulteriori. Solo dopo un’analisi più accurata potrà ricostruire gli eventi in modo corretto.


Il pentimento per l’ingiusta uccisione del cane genera nel padrone il bisogno di rimediare con un tributo visibile, che sia una statua, un mausoleo o un’iscrizione funeraria. La credulità popolare costruisce su quel luogo una devozione che nel caso di Guinefort si lega ad un altro tema tra la stregoneria e la leggenda urbana, quello dei changeling.


I changeling erano creature del mondo magico che venivano scambiati con i bambini portati dalle madri in apprensione presso fiumi o boschi per poter essere guariti. Guinefort era appunto uno di questi “guaritori”.


Nelle parole di Stefano di Borbone: “Ma soprattutto le donne che avevano bambini malati e deboli li conducevano in questo luogo, e in un borgo fortificato distante una lega andavano a cercare una vecchia che insegnava loro il modo rituale di agire, di fare offerte ai demoni, di invocarli, e che le conduceva poi in questo luogo. Quando vi giungevano offrivano sale e altre cose; appendendo agli arbusti circostanti le fasce del bambino; piantavano un chiodo negli alberi che erano qui cresciuti; facevano passare il bambino nudo tra i tronchi di due alberi: la madre, che si trovava da una parte, teneva il bambino e lo gettava nove volte alla vecchia che era dall'altra parte. Invocando i demoni esse scongiuravano i fauni che si trovavano nella foresta di Rimite di prendere questo bambino malato e debole che, affermavano, apparteneva loro, rendendo invece loro stesse il proprio figlio grasso e grosso, sano e salvo, che essi si erano portati via.


Dopo aver fatto questo, le madri infanticide si riprendevano il figlio e lo adagiavano nudo ai piedi dell'albero sulla paglia di una culla, e accendevano alla testa e ai piedi di questo, con il fuoco che si erano portate dietro, due candele della misura di un pollice, e le fissavano in alto sul tronco; quindi si traevano in disparte sicché le candele non fossero consumate in modo da non udire i vagiti del bambino né vederlo.


Consumandosi in questo modo, le candele bruciavano completamente ed uccidevano numerosi bambini, come abbiamo appreso da alcune persone. Una donna mi raccontò anche che, avendo appena invocato i fauni, stava traendosi in disparte quando vide un lupo sbucare dalla foresta e avvicinarsi al bambino. Se l’amore materno non avesse mosso la sua pietà e non fosse ritornata verso il bambino, il lupo o, sotto le sue sembianze, il diavolo, come essa affermava, avrebbe divorato il bambino. Quando le donne ritornavano dal figlio e lo trovavano ancor vivo, lo conducevano nelle acque impetuose di un vicino torrente, chiamato Chalaronne, dove lo immergevano per nove volte: se sopravviveva e non moriva immediatamente o poco dopo è perché aveva i visceri molto robusti. Noi ci siamo recati in quel luogo, abbiamo convocato il popolo di questa terra e abbiamo predicato contro tutto ciò che è stato qui detto. Abbiamo fatto esumare il cane e tagliare il bosco sacro e lo abbiamo fatto bruciare, assieme allo scheletro del cane. E ho fatto affiggere dai signori di quella terra un editto che prevedeva il sequestro e il riscatto dei beni di coloro che d'ora innanzi si fossero recati in quel luogo per questo motivo".


Interessante a tal proposito il film francese del 1987 di Suzanne Schiffman, “Le Moine et la sorciére” che descrive la controversia su Saint Guinefort vista attraverso gli occhi dello stesso Stefano di Borbone. E, per rimanere in tema cinematografico, l’antica leggenda del sangue di un fedele cane scambiato per il sangue di un bambino poteva non essere richiamata visivamente anche nel film di Bernard Rose “Candyman” (1992), la prima pellicola fattuale sulle leggende contemporanee?

A proposito: la la risposta esatta è 50 centesimi. Se p+q = 6 e q= p+5 sostituendo si ottiene 2p =6-5 quindi p =0,5 e q=5,5


Nell'immagine in evidenza: il mito di San Guinefort

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1 Comment


Piergiorgio Minoli
Piergiorgio Minoli
Apr 18, 2022

E' confortante sapere che almeno queste usanze terribili sono frutto di fantasie. Si vorrebbe che tutte fossero così. Curioso che queste leggende si basino proprio sull'assunto che la prima impressione è quella sbagliata. Poi si rivela sbagliata anche la seconda ma l'insegnamento che non bisogna fidarsi delle apparenze accomuna in questo caso sia chi crede in queste leggende sia chi non ci crede.

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