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Leggende golose: storia della crostata



Articolo di Paola Frongia e Giuseppe Spanu


Breve storia delle torte


Un tempo le torte per le occasioni speciali erano delle semplici focacce basse e piatte a base di farina di frumento, frutta secca e miele. Si cominciò a intravedere un po’ di varietà solo intorno all’anno Mille, per via di nuove abitudini che riguardarono in particolar modo i conventi e le dimore aristocratiche. Nei primi si iniziò a utilizzare il forno, dapprima per cuocere gallette e biscotti da offrire ai pellegrini di passaggio, in seguito anche per i dolci dedicati alle varie ricorrenze religiose. Molte di queste specialità sono arrivate sino ai giorni nostri.


Nelle corti invece si scoprì il piacere di organizzare dei sontuosi banchetti, in cui era fondamentale stupire gli invitati con pietanze elaborate. Il lavoro dei cuochi venne facilitato dall’impiego di nuovi ingredienti importati dal Vicino Oriente: frutta come datteri o arance amare; spezie come zafferano o chiodi di garofano; essenze distillate come l’acqua di rose o di fiori d’arancio. Arrivò anche lo zucchero di canna, però era una merce talmente rara che se ne fece un uso molto limitato; iniziò a essere considerato il cuore della pasticceria nel Rinascimento: infatti fu allora che sulle tavole dei banchetti comparvero marmellate, gelatine di frutta, dolcetti di marzapane e confetti.


La cottura delle torte diventò ancora più facile nel Seicento, grazie agli stampi in metallo e ai forni più affidabili. Nel secolo successivo invece, iniziò a muovere i primi passi il cake design: infatti, si scoprì che aggiungendo lo zucchero, il succo di limone o un altro aroma all’albume montato a neve, si potevano ricoprire le torte con una glassa, che una volta cotta nel forno, diventava lucidissima e particolarmente invitante.


Nell’Ottocento lo zucchero diventò una merce alla portata di tutti, anche le classi meno agiate poterono finalmente dedicarsi alla golosissima arte della pasticceria. Fu anche la volta delle torte a strati, tutte crema e panna, molto simili a quelle di oggi. Le novità più importanti però arrivarono alla fine del XIX secolo: con il lievito in polvere e la farina fine extra bianca si potevano preparare delle torte soffici e spumose, anch’esse molto simili a quelle dei giorni nostri.


L’Italia può vantare un’innumerevole varietà di dolci tipici, ma un po’ per la difficoltà di ricostruire la loro lunghissima storia e un po’ perché si preferisce pensare che dietro ci sia qualcosa di straordinario, sono tante le leggende legate alla loro genesi. È il caso di un dolce antichissimo come la crostata, la cui storia è un mix di mitologia, tradizioni partenopee, influssi orientali, racconti di corte e di un convento nel cuore della città di Napoli.


La crostata, tra storia e leggenda


Il dolce prende il nome dal guscio di pasta, o meglio dalla “crosta”, che in genere contiene un gustoso ripieno. Tuttavia, quando la crostata fece la sua comparsa nei banchetti medioevali [1], era qualcosa di stomachevole per i palati di oggi: per esempio, il ripieno poteva essere di carne di pollo condita con un intingolo a base di uova sbattute, spezie, brodo o un succo acidulo come quello d’agresto. A tal proposito, una delle cento storielle del Novellino [2] ha per protagonista una crostata d’anguille appena sfornata che attirò l’attenzione di un topo, a quel punto la massaia


“allettò la gatta, e misela nella madia […] Il topo si nascose tra la farina, e la gatta si mangiò la crostata; e quand’ella aperse la màdia, il topo ne saltò fuori, e la gatta, perché satolla, nol prese”.

Inoltre, all’epoca non c’era ancora la pasta frolla che comparve intorno al XIII secolo, quando si iniziò a utilizzare lo zucchero di canna importato dal Vicino Oriente. Il primo a trascriverne la ricetta fu il celebre cuoco francese Guillaume Tirel che intorno al 1380 la inserì, insieme alla crema fritta e ad altre specialità, nel manoscritto Le Viandier (Il Vivandiere), il più grande trattato di cucina medioevale.


Tuttavia, la crostata assunse l’aspetto che tutti conosciamo nel Rinascimento: grazie a una maggiore disponibilità di zucchero, i nostri pasticceri poterono realizzare una pasta frolla perfetta e farcire le torte con creme e marmellate. In quel periodo, furono pubblicati trattati culinari come Opera (1570) di Bartolomeo Scappi (1500-1577) e L’arte del ben cucinare (1662) di Bartolomeo Stefani, entrambi con diverse pagine dedicate alla crostata.


Nel nostro Paese il ripieno cambia da una regione all’altra, per esempio in Toscana è a base di fichi e noci o di mele e uva passa; in Sicilia, di crema pasticcera e amarene sciroppate o di frutta secca come mandorle e pistacchi; a Roma di ricotta di pecora e visciole; ma tutte le leggende hanno per protagonista la pastiera, ovvero la crostata napoletana. La ricetta tradizionale prevede:


una  frolla a base di farina, uova, strutto (o burro) e zucchero semolato […] Per il ripieno occorrono invece latte, zucchero, ricotta di pecora, chicchi di grano, burro, frutta candita, uova, vaniglia, vanillina, scorza d'arancia e di limone, acqua di fiori d'arancio e cannella in polvere”.

Ingredienti simili richiamano la cucina di corte, ma solo il mito è all’altezza di un dolce così sublime e dato che siamo a Napoli, non poteva mancare un elemento come il mare.


La versione più diffusa del mito si svolge all’epoca in cui la sirena Partenope, con l’arrivo della primavera, emergeva dalle acque e allietava gli abitanti del luogo con il suo canto. A un certo punto, questi ultimi decisero di ringraziarla offrendole sette doni, a ciascuno di essi corrispondeva un simbolo preciso: la farina e la ricotta, la forza e l’abbondanza; il grano cotto nel latte, la fusione del regno vegetale e animale; le uova, la vita che nasce; l’acqua di fiori d’arancio, il profumo della terra campana; le spezie, un omaggio ai popoli lontani e lo zucchero, perché dolce come la sua voce. Partenope mescolò il tutto creando una crostata [3]  che donerà alla città di Napoli, per ricambiare la generosità della sua popolazione.


Alcuni ingredienti hanno effettivamente dei legami con i riti pagani: per esempio, l’uovo veniva portato in processione dalle sacerdotesse di Cerere, per celebrare l’arrivo della primavera; il grano potrebbe richiamare la focaccia di farro tipica delle cerimonie nuziali dell’antica Roma. Se invece ci soffermiamo su altri ingredienti, è inverosimile che il dolce sia nato in quel lontanissimo passato: la cannella e l’acqua di fiori d’arancio si diffusero nel Medioevo, grazie ai contatti con gli Arabi; al posto dello zucchero si utilizzava il miele; infine, non c’era nemmeno la frutta candita, che comparve nel Rinascimento.


Secondo un’altra tradizione, le mogli di alcuni pescatori, per ingraziarsi il mare, lasciarono sulla spiaggia di Mergellina sette ceste contenenti la ricotta, la farina, le uova, il grano, le spezie, la frutta candita e lo zucchero; l’indomani, non solo riabbracciarono i loro mariti, ma si accorsero che le onde avevano mescolato il tutto dando vita a un dolce fantastico.


Esiste un’altra versione legata al mondo dei pescatori, in questo caso alcuni di loro sopravvissero a un naufragio nutrendosi della “pasta di ieri”, una torta a base di ricotta, grano e spezie. Se dietro a una leggenda c’è sempre un nocciolo di verità, vero è che un tempo la pastiera veniva preparata aggiungendo all’impasto gli avanzi dei giorni precedenti, un po’ come si fa con la frittata o il timballo di maccheroni, di cui i napoletani sono ghiotti. Tuttavia, l’idea che il dolce prenda il nome dall’espressione “pasta di ieri” è un’ipotesi fantasiosa; molto più semplicemente, si ritiene che il nome derivi dalla volgarizzazione della parola latina pastam. In ogni caso, i pasticceri napoletani consigliano di prepararla sempre dal giorno prima, in modo che abbia il tempo di riposare e rivelare tutta la sua bontà al momento dell’assaggio.


Ritornando alla storia, il termine “pastiera” era già in uso nel Seicento. Lo utilizzò lo scrittore Giambattista Basile (1583-1632) nella fiaba La gatta Cenerentola [4], nel passaggio in cui descrisse il banchetto organizzato dal re per trovare la legittima proprietaria della scarpetta:


E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatoio e che bazzarra che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle?” [5].

Secondo la versione più accreditata, questa magnifica crostata fu creata un secolo prima dalle abili mani di una suora benedettina del convento di San Gregorio Armeno, la strada che oggi ospita le botteghe artigiane dei presepi. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, questa volta però richiamano le festività pasquali: l’uovo infatti nella simbologia cristiana rappresenta la Resurrezione; lo zucchero, la ricotta e il grano potrebbero richiamare le focacce fatte con il latte e il miele che i catecumeni, all’epoca di Costantino, ricevevano in offerta  durante il battesimo la notte di Pasqua.


Si sa che dolci tipici come gli struffoli e i roccocò nacquero tra le mura di un convento napoletano e che, durante la settimana santa, le monache di San Gregorio Armeno preparavano le pastiere per le famiglie della ricca borghesia partenopea. A tal proposito, la gastronoma e scrittrice Loredana Limone racconta:


Quando i servitori andavano a ritirarle per conto dei loro padroni dalla porta del convento, che una monaca […] apriva con circospezione, fuoriusciva una scia di profumo che s’insinuava nei vicoli intorno e, spandendosi nei bassi, dava consolazione alla povera gente per la quale quell’aroma paradisiaco era la testimonianza della presenza del Signore”.

All’ignota suora benedettina viene attribuita anche la tipica decorazione con le striscioline intrecciate, che in effetti ricorda la grata che separa le monache di clausura dal mondo esterno; tale teoria però non è mai stata confermata. In realtà le sette strisce, tre sopra e quattro sotto, servono ad impedire che il ripieno fuoriesca durante la cottura. Tuttavia, anche in questo caso c’è qualcosa che non torna. Infatti, quando la ricetta apparve per la prima volta nell’opera Lo scalco alla moderna (1693) di Antonio Latini [6] (1642-1692), era molto diversa: non c’erano le uova, era presente il parmigiano grattugiato, per macerare i pistacchi veniva utilizzata l’acqua di rosa mosqueta e al posto della pasta frolla, c’era il marzapane. Evidentemente, l’armonia tra i vari ingredienti è stata raggiunta solo dopo una serie infinita di tentativi, tanta passione e forse qualche fortunato incidente culinario. Sicuramente, quando nel XIX secolo [7] arrivò sulla tavola dei Borbone, era già quel dolce sublime che tutti conosciamo. Fu un certo Marchese De Rubis a introdurla a corte, dopo averla assaggiata da un famiglia di contadini che l’aveva accolto dopo uno sfortunato incidente in carrozza. Si racconta che riuscì a far sorridere persino Maria Teresa d’Austria, nota per la sua eccessiva seriosità, tanto che l’augusto consorte, il re Ferdinando II, commentò ad alta voce:


“Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo”.

Non sappiamo se la sovrana sorrise l’anno dopo, ma di sicuro ancora oggi a Napoli non è veramente Pasqua se non c’è “Sua Maestà la pastiera” [8] sulla tavola.


Alle prossime golosità leggendarie!


Note               


  • [1] Nel Medioevo, la crostata nasce come pietanza adatta a contenere e conservare il cibo. All’epoca, il confine del gusto era molto labile, perciò è difficile stabilire se fossero solo dolci o solo salate.

  • [2] Raccolta di novelle toscane della fine del XIII secolo.

  • [3] Esistono due varianti di questa leggenda: nella prima, Partenope raccoglie i doni, ma senza rendersene conto,  li mescola e così si ritrova la prima pastiera tra le mani; nell’altra, Partenope porta i doni al cospetto degli dei che mescolano il tutto dando vita a una crostata, che poi la sirena donerà alla città di Napoli.

  • [4] La fiaba fa parte della raccolta Lo cunto de li cunti (Il racconto dei racconti), pubblicata postuma nel 1634. La prima edizione in italiano è del 1924. Nell’opera compaiono tante specialità della cucina napoletana del Seicento.

  • [5] Traduzione di Benedetto Croce: “Nel giorno stabilito, oh bene mio! quale masticatorio e quale fiera fu quella! Donde uscirono tante pastiere e casatelli?”

  • [6] Antonio Latini lavorò a Napoli per tanti anni come scalco, ovvero soprintendente della cucina, con il compito di selezionare e dirigere i cuochi, rifornire la dispensa e organizzare i banchetti.

  • [7] Nel 1837, Ippolito Cavalcanti pubblica la ricetta in Cucina teorica-pratica. È molto simile a quella di oggi, ma contiene la provola grattugiata.

  • [8] Veniva chiamata in questo modo da Eduardo De Filippo, che citò questa prelibatezza nella poesia Pasca e Natale.


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