Quella del fantasma femminile al ballo è una delle super-classiche leggende contemporanee. È una storia parallela e più specifica di quel grande contenitore di motivi leggendari che va sotto il nome di autostoppista fantasma, ed è caratterizzata dallo svolgersi di una parte importante della narrazione in un locale pubblico deputato alla vita, alla gioia, agli incontri fra individui dei due sessi e al divertimento.
Paolo Toselli, fondatore del CeRaVoLC, se ne occupa in uno dei paragrafi di una vasta rassegna sull’autostoppista fantasma alla quale vi rimandiamo.
Qui vi raccontiamo un caso speciale di morta al ballo: presenta parecchie particolarità - e anche, purtroppo, molti interrogativi, perché disponiamo di una documentazione senz’altro incompleta.
A letto con la morta?
Il 19 aprile del 1939 diversi quotidiani americani (noi abbiamo l’Ogdensburg Press, della città omonima dello stato di New York) pubblicarono una puntata di In New York, rubrica di George Ross, un giornalista che si occupava delle cronache mondane, del gossip e della vita dei più attivi socialites della metropoli.
La prima delle storie di quel giorno era, in tutto e per tutto, una nuova versione di una delle più trionfali leggende contemporanee al mondo. Era la storia dell’incontro fra un uomo e una presenza inquietante, chiamata per l’occasione Spectral Mary, che nei giorni precedenti era stata riferita al giornalista come “vera” in almeno cinque occasioni diverse!
Il protagonista della vicenda era un giovane newyorkese di buona estrazione sociale. Voleva divertirsi, e per questo era andato in un locale notturno che - così raccontava Ross - era frequentato di solito da parecchie giovani donne, definite nell’articolo hostesses.
L’uomo si era avvicinato a una delle giovani e l’aveva invitata a ballare. Le sue mani erano gelide - sono sempre così, aveva detto lei - e i suoi occhi di un azzurro profondo. Così profondo, scriveva Ross, che l’uomo aveva trovato il coraggio d’invitarla ad andare a casa sua.
Presero un taxi, lei gli disse come si chiamava e di abitare in una zona periferica del Bronx, allora estrema periferia di New York. Erano quasi arrivati a casa del giovanotto quando, all’altezza di una casa mal illuminata e in cattivo stato, lei chiese di fermare l’auto e di attenderla per un minuto. Dopo dieci minuti senza che la donna tornasse, il suo accompagnatore, innervosito, scese per cercarla. C’era una siepe, e solo allora si accorse che si trattava di un cimitero. Solo a questo punto compare nella storia il vero protagonista e testimone muto di questo motivo leggendario: il soprabito dell’uomo che, visto quanto lei aveva freddo, le aveva messo sulle spalle. La donna dagli occhi blu si era allontanata tenendolo addosso.
Lui non riuscì a trovarla. Tornò in fretta al taxi, e chiese di farsi portare all’indirizzo del Bronx che la ragazza aveva indicato come sua abitazione. Suonò al campanello, e venne ad aprire una donna, mezzo addormentata. Imbarazzato e scusandosi, il giovane spiegò di essere preoccupato, perché aveva portato in macchina la ragazza, poi scomparsa per strada senza lasciare traccia.
Lo so, giovanotto”, rispose l’anziana dai capelli bianchi. “Mary lo fa spesso. Vede, è morta tre anni fa, e ora giace solitaria in quel cimitero laggiù. Così, si reca dove ogni notte c’è la vita e poi torna al suo posto, nella terra”.
L’ultimo sviluppo della storia vede il trionfo del testimone muto dell’intera storia: il soprabito dell’uomo, come prevedibile ritrovato il giorno dopo appeso alla tomba sulla quale era inciso il nome di Mary.
La storia, così raccontata, non sembra avere alcun intento moralistico. Spectral Mary è quasi di certo una prostituta, o, comunque, una giovane che non esita ad accettare la compagnia casuale di un uomo conosciuto in un locale. Da morta, spiega la donna anziana che ha il compito di fornire il senso generale della vicenda, il desiderio della ragazza è di tornare “dove c’è la vita” - e godersela, anche se è morta. Non si dice che rapporto ci sia fra la donna anziana dai capelli bianchi e la giovane dagli occhi fatali di un azzurro profondo, ma l’esercizio della sessualità post-mortem è proprio ciò che la ragazza continua a domandare, girando per i locali di New York. L’anziana, invece, resta nella sua casa periferica, nel Bronx, a riposare sola.
Una domanda implicita, dunque, è chi, fra le due figure di donna, sia la vera viva, e chi sia, invece, già sulle soglie della morte.
La voce, occasione per il razzismo
La storia della Spectral Mary della New York 1939 sarebbe già interessante così. Ma c’è dell’altro. Il fatto è che quello che vi abbiamo presentato è soltanto il primo versante della storia. Siamo in grado di raccontarne un altro, ma con una premessa: ci manca di sicuro tutto quello che sta nel mezzo, fra la storia della morta al ballo raccontata da George Ross il 19 aprile e quanto, invece, si ritrova quasi un mese dopo, il 10 maggio del 1939 - e non più sulla stampa americana, ma su quella italiana.
Quel giorno, il Corriere della Sera riferì parecchio a modo suo quanto, sembra di capire, era successo nelle settimane precedenti. La “storia della ballerina fantasma” aveva fatto il giro di “mezza New York” ed era sfociata in un fatto strano che, se riferito correttamente, è interessante dal punto di vista della struttura della storia. Una stazione radio di Manhattan, il cui nome non era però precisato, aveva ricevuto centinaia di lettere e di telefonate che chiedevano spiegazioni sulla vicenda. Il motivo era questo: quelle persone attribuivano la responsabilità della diffusione della notizia alla stazione radiofonica, senza che quella avesse mai raccontato una storia simile.
Si riconosce qui un elemento che, nel periodo in cui la comunicazione aveva al centro la radio, abbiamo incontrato parecchie volte: l’assegnazione della propalazione della falsa notizia a un’emittente radiofonica che, però, non aveva mai fatto nulla di simile. In alternativa, poteva essere incolpata una più generica stazione radio, oppure altre fonti ufficiali o ufficiose che, anche stavolta, non c’entravano nulla.
Poi il Corriere riferiva la storia, ma in termini più classici e meno erotizzati di quanto aveva fatto George Ross il mese prima. Due giovanotti (erano due, in questa versione) avevano conosciuto al ristorante una ragazza pallida e triste, emaciata, dalla dita fredde e umide. Lei aveva fatto cadere delle gocce di vino sulla camicetta bianca. I due avevano ballato con lei e poi, in auto, l’avevano riaccompagnata a casa. Lei però aveva chiesto di scendere all’altezza di un cimitero. A questo punto nella storia fa la sua comparsa un elemento ulteriore, del tutto assente nel racconto originale di cui disponiamo: giunti davanti al recinto del camposanto, la ragazza era sparita, e… uno dei due accompagnatori era caduto morto al suolo! Il superstite si era recato all’indirizzo della ragazza, dove, inutile dirlo, gli era stato detto che era deceduta da qualche mese.
Come se non bastasse la morte di uno dei due sfortunati giovanotti, ecco nella storia l’elemento finale, quello della conferma che la ragazza era un fantasma: la salma viene riesumata e, manco a dirlo, “sul bianco vestito della morta” si rinvengono tracce di vino.
Dell’eros sottostante la storia prima versione, qui resta ben poco - se non si vuole assumere come traccia di sessualità il fatto che la morta, nella tomba, abbia il “bianco vestito”, quello classico della sposa vergine, ma macchiato di vino, e che, invece che essere segno di festa e di vita, ne rivela la condizione di defunta - e di defunta inquieta.
Il titolo di questo paragrafo, però, allude a una trasformazione in senso razzista. Dovendo spiegare perché una storia così surreale (“falsa dalla prima parola all’ultima”, diceva il Corriere) avesse potuto generare tutta quella corrispondenza verso la stazione radiofonica, il giornale dava la colpa alla particolare indole dei propalatori. Dopo aver precisato che nessuno dei mittenti asseriva di aver ascoltato in prima persona la trasmissione in cui si pretendeva fosse stata data la notizia, il quotidiano milanese spiegava così il caos delle settimane precedenti:
[…] doveva trattarsi di una voce originata a Harlem, il quartiere dei negri. Difatti, è parso dubbio che la fantasia di un Americano di razza bianca potesse inventare un racconto così misterioso e romantico. La gente di colore di solito si compiace di queste storie, ed è naturale attribuirle la paternità della piccola leggenda. È facile che, ripetuta di bocca in bocca… la falsa notizia si sia venuta arricchendo di particolari e sia stata attribuita, per darle un crisma di verità, alla innocente stazione radio di Manhattan”.
…Come se casi di morte al ballo non ce ne fossero mai stati, nei racconti tradizionali italiani o sui nostri giornali. Se ad Harlem si “compiacevano” di queste storie, noi certo non eravamo da meno. Ma era il 1939. Il 14 luglio dell’anno precedente era stato pubblicato il vergognoso Manifesto della razza, e, soprattutto, nell’ottobre dello stesso anno erano state emanate le leggi discriminatorie contro gli ebrei. Da quel momento, l’Italia era ufficialmente un paese razzista. I toni della stampa, di conseguenza, diventarono ancora più aggressivi e volgari di quanto non fossero in precedenza.
Insomma, le povere leggende contemporanee, oltre ad ammettere innumerevoli varianti, sembrano avere un’altra caratteristica: si prestano, remissive, a essere utilizzate per ogni intento ideologico, religioso, economico, edificante o spaventoso. E, come nel caso italiano, anche a un imbarazzante impiego al servizio del razzismo di stato - per il quale gran parte degli italiani non sembrava provare particolari turbamenti.
Foto di Andreas Gronberg da Pixabay
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