Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Nell’ultima parte dell’Ottocento leggere il Journal des voyages francese, che usciva a Parigi dal 1877, era un modo per sognare avventure, esotismo, popoli sconosciuti e remoti. Per certi versi le sue pagine, seppure in forme esagerate, potevano ricordare le immaginifiche descrizioni del nostro Emilio Salgari. Aprivano l’immaginazione a spazi lontani, prima che la fantascienza prendesse il sopravvento nei gusti del pubblico.
Esattamente come avverrà per gli abitanti degli altri mondi, gli indigeni, in specie se africani o asiatici, potevano essere capaci di ogni stranezza e di ogni crudeltà e, al contempo, di qualsiasi stupidaggine - non ultimo, ai loro stessi danni. Tutto era lecito, per raccapricciare e divertire il pubblico, seduto nel salotto di casa o al tavolo di cucina.
Un esempio di questo tipo, preso di peso da una serie di leggende che circolavano all’epoca ma che in varie forme erano diffuse in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, è quello che il Journal des voyages presentò nel suo numero del 28 aprile 1878, del quale vedete la copertina qui sopra.
Si trattava della narrazione - presentata come vera - delle peripezie di un naufragio, avvenuto nel 1853 all’altezza di Cape Bernouilli, sulle coste della remotissima Australia. Venne pubblicata in diverse puntate, sotto il titolo A travers l’Australie. Proprio nel primo episodio, Savants et anthropofages (“Scienziati e antropofagi”), uno dei sopravvissuti europei (“Daniel Roe”, membro della consueta spedizione di accademici britannici...) raccontava l’ordalia che l’equipaggio era stato costretto a vivere, giacché il relitto arenatosi sulla costa meridionale del continente era stato raggiunto da gruppi di selvaggi che ne avevano saccheggiato la stiva. Ecco il passaggio che più ci interessa (p. 245):
Possedevamo inoltre una mezza dozzina di cervelli e tutta una serie di feti conservati nell’alcool a 75°. Era la scoperta di qualcosa di nuovo, accompagnata da contorsioni da gorilla. Aprirono con precauzione - religiosamente, vorrei dire - gli enormi vasi che li contenevano, e bevvero il liquore che li conservava con una ghiottoneria paragonabile soltanto all’estasi con la quale lo fecero. Questo liquido infernale, che ne doveva infiammare le viscere, portò la loro ebbrezza al culmine, ed essi divorarono, come fanno i cinesi con l’acquavite, questi tristi resti che soltanto la scienza ha il diritto di studiare, e anche di mutilare, ma senza compierne una profanazione. Gioiosi, ebbri e sazi, questi abominevoli selvaggi barcollavano, urlavano a piena gola e si battevano il ventre con una beatitudine profonda. Si addormentarono infine come delle foche.
Questa storia ha attirato l’attenzione di un antropologo importante, il francese Jean-Loïc Le Quellec, che nel suo libro Alcool de singe et liqueur de vipère (Errance, Brast, 2012, pp. 197-199) lo confronta con altre storie di cannibalismo più o meno involontario, ad esempio con quella in cui, per errore - e senza volerlo - sono marinai francesi a trangugiare in Bretagna il “liquore di scimmia”: in altre parole, l’alcool in cui era conservato il corpo di un primate.
Dal punto di vista narratologico, i due racconti hanno un significato opposto, almeno in parte. I nativi australiani del Journal des voyages, ubriachi, assumono tratti da gorilla: diventano loro degli animali, pronti a divorare carne umana. Nel caso studiato da Le Quellec sono i “civili” marinai europei a consumare l’alcool che conserva la scimmia. Gli europei, però, bevono e basta. Per gli aborigeni il fiero pasto, per dirla con Dante, non si limita all’ubriachezza, ma vira nell’antropofagia vera e propria.
E anche gli esiti sono profondamente diversi: i marinai francesi, dopo aver appreso la verità, sono sconvolti e vomitano; gli aborigeni, al contrario, si addormentano felici “come foche”, di un sonno profondo che ha insieme il sapore dell’anormalità psichica e l’incoscienza del letargo animalesco.
Non manca nemmeno, dal punto di vista strutturale, l’elemento del coro, cioè la presenza gli spettatori collocati sul fondo del teatro, come nella Grecia classica, pronti a commentare insieme al pubblico quanto accaduto. È proprio il “coro” a consegnare il senso finale della narrazione a chi legge o, per meglio dire, a chi assiste alla scena: i compagni dei marinai deridono gli inconsapevoli bevitori, in sostanza “salvandone” l’umanità e scusandoli per quanto fatto; gli scienziati che vedono gli aborigeni compiere la “profanazione”, invece, ne rimangono orripilati.
La distanza è abissale: i nativi australiani non potranno mai essere come noi. I marinai europei, nel disgusto che provano per ciò che hanno fatto, stanno invece già espiando l’infrazione del tabù. La loro condizione di esterni alla comunità è rimediabile e temporanea. Quella dei “selvaggi”, tendenzialmente, no.
Abbiamo già scritto di leggendario cannibalico, in una serie di dieci storie di ingestioni involontarie da parte di militari e esploratori in luoghi esotici, diffuse fra il 1873 e il 1906. Ve ne riportiamo una versione del 1873:
Un curiosissimo aneddoto circa sir Bartle Frere, l’eroico capo della missione di Zanzibar che ha lasciato Parigi l’altro ieri. Cinque mesi fa sir Bartle Frere per imprudenza si era allontanato dalla scorta insieme a suo figlio ritrovandosi in piena foresta africana. Giunse la notte. I due dispersi, affamatissimi, scorsero una capanna e vi entrarono. Ne trovarono una vecchia negra cui fecero comprendere che desideravano mangiare. Terrorizzata, la vecchia prese qualche uovo da un angolo e sir Bartle si mise a preparare una frittata. Mentre cucinava scorse sul soffitto delle cose nere infilzate con una stringa. Malgrado le suppliche della negra, le misero nella frittata, convinti si trattasse di funghi morelli [Morchella, N. d. A.]. Due minuti dopo i viaggiatori avevano divorato la frittata, che trovarono eccellente. Ingoiato l’ultimo pezzo, ecco entrare il proprietario della capanna.
- Stranieri miserabili, gridò il negro in cattivo inglese, avete appena divorato i miei trofei di guerra!
- Quali trofei?
- Quelli che erano appesi al soffitto… le orecchie dei guerrieri che avevo ucciso!
Sir Bartle Frere faticò ad aver salva la vita e soffrì d’indigestione per quattro giorni.
Le conseguenze, in quel motivo narrativo, potevano variare, ma erano quasi sempre negative: disgusto, malesseri di ogni tipo, in un caso addirittura la morte. In un numero limitato di casi, tuttavia, i protagonisti dell’equivoco sembravano essersela cavata senza rimetterci troppo. La loro forte fibra morale ne aveva preservato l’equilibrio e la salute: un fiero ammiraglio francese, Amédée Courbet (1827-1885), rimane divertito e indifferente al pasto, malgrado sia caduto in inganno sulla natura di quei “funghi”.
L’animo nobile sembra in grado di porre rimedio alla rottura del tabù: all’uomo moralmente sano, forse è permesso superare persino una prova del genere.
Altra leggenda connessa alla storia degli aborigeni australiani è quella dell’ammiraglio sotto spirito, della quale potete leggere qui.
In quel caso, al disgusto per l’orrore dell’avvenimento si aggiungono il sentimento del ridicolo e quello dell’oltraggio: il rum trangugiato dai marinai di Sua Maestà era quello che conservava il “sacro” corpo dell’ammiraglio Nelson, morto in mare durante la battaglia navale di Trafalgar, che bisognava riportare in patria con tutti gli onori.
In quell’articolo, uno di noi due (SL) aveva tracciato una breve storia dei “cannibalismi inconsapevoli”, dovuti alla bevuta dei liquidi usati per conservare i cadaveri. È una storia che risale almeno al Medio Oriente del Tredicesimo secolo. Nella versione francese del Journal des Voyages del 1878, però, c’è un elemento razzista che si ritrova soltanto in poche occasioni: la mancanza di rimorso e la totale animalità di chi compie l’atto, generato dalla natura sub-umana dei colpevoli.
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