Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Oggi parliamo di una catena di morti dai contorni misteriosi, di stivali che uccidono e di serpenti che più letali non si può, per una leggenda tipica da frontiera del West:
Il veleno dei serpenti resta pericolosissimo anche se è secco. E' famoso il caso di quel fittavolo della Pensilvania (sic) che, morso alla gamba, attraverso lo stivale, da un serpente a sonagli, morì poco dopo: un anno più tardi suo figlio mise quegli stivali e la sera, nel cavarseli, si sentì graffiare la gamba; poco dopo dolori, convulsioni, morte. Di lì a qualche tempo il fratello del defunto fittavolo compra gli stivali e li calza a due anni di distanza dalla morte del fratello: nuova graffiatura e nuova vittima. Un medico, esaminato lo stivale, trovò che v'era rimasto un dente uncinato del serpente a sonagli, e questo graffiava la gamba nel movimento dal basso in alto e le inoculava il vecchio veleno. (Corriere della Sera, 6 settembre 1907)
In questa storia c'è tutto: un mistero che si protrae per due lunghi anni, una famiglia intera sterminata da un misero dentino, l'estrema pericolosità di un territorio (quello dell’Ovest americano) ancora selvaggio e indomabile. Non stupisce che la leggenda degli stivali letali abbia attraversato a lungo la storia culturale americana, e che da lì i suoi echi siano arrivati anche fino a noi. Ma da quando circola questo racconto?
Una storia dell’Ottocento americano
La vicenda sembra particolarmente viva nell’America del XIX secolo. Ecco qualche esempio.
Il Mirror di Saint Louis (Missouri), nell’aprile del 1846 lo presentò come un fatto accaduto “ventinove anni prima” in Pennsylvania (una localizzazione che tornerà sovente) a un padre e due figli, tutti morti.
Nel numero di febbraio 1869 della rivista Frank Leslie’s Pleasant Hours la vicenda concerne due fratelli che muoiono uno dopo l’altro per aver indossato gli stivali. L’evento è collocato nel New England e la vicenda è presentata come accaduta qualche anno prima.
Critico, invece, il Daily Northern Argus australiano del 18 aprile 1876: riprendendo lo Scientific American del 4 dicembre precedente, il giornale scriveva che la notizia era circolata già “vent’anni prima”. In questa versione, un uomo era morto per il dente nello stivale e molti altri lo avevano seguito, prima che si capisse la causa; ma, a ben vedere, scriveva il giornale australiano, quelle erano soltanto “storie”. Mere invenzioni.
Molti anni dopo, il 16 gennaio 1897, troviamo il Coolgardiee Pioneer, ancora un giornale australiano: in un lungo articolo scritto da qualcuno che si celava dietro lo pseudonimo di “Un Californiano” si narrava che in quello Stato ben sei persone erano morte nel corso degli anni, tutte a causa dello stesso stivale.
Secondo il quotidiano dell’Illinois The Quincy Daily Whig del 28 gennaio 1893, invece, la vicenda era accaduta appena l'estate precedente a un tale Thomas Horton, che si era trovato a calpestare un serpente a sonagli nel periodo di massima pericolosità, ovvero durante il cambio della pelle. Il resto della storia era sempre quella: la moglie dell'uomo consegnava gli stivali a Napoleon Mecker, un afro-americano che lavorava in una fattoria vicina, e questo moriva dopo averli indossati. Le calzature passavano a un nipote dell'uomo, e quella volta si dimostravano fatali in meno di quarantott'ore. Poi ne diveniva proprietario un anziano trapper, che però riconosceva i sintomi da avvelenamento e sopravviveva... A un esame dello stivale, ecco la sottilissima punta del dente, ed ecco la spiegazione per la catena dei misteriosi decessi!
La storia fu popolare anche dal punto di vista narrativo. La si trova, ad esempio, in The Mission, Or Scenes in Africa (1845), un libro per la gioventù del romanziere inglese Frederick Marryat (1792-1848), celebre per le sue storie di mare. Qui la vicenda compare in una delle forme più ricorrenti, un padre e due figli che, uno dopo l’altro, muoiono. L’autore fa commentare i suoi personaggi:
"I serpenti qui hanno un veleno così mortale come quello dei serpenti a sonagli in America?" "Altrettanto"!
L’Africa, continente all’epoca ancora semi-inesplorato, come il selvaggio West, con tutte le sue insidie e i suoi pericoli mortali, da cui neanche uno stivale sembra preservare: è questo il leit motiv di questa leggenda, e forse anche il motivo del suo successo.
Oggi la storia è ben identificata come parte del vasto folklore americano sui serpenti e sulle storie della frontiera. Tanto per fare un esempio: Wayne Erbsen, un appassionato della cultura country, presenta su questo sito una versione interessante che riconduce alla Guerra di Secessione (1861-65), con un becchino che diventa il personaggio risolutore: è lui che riesce a identificare la causa di una serie di decessi successivi, intuendo che tutti i morti portavano gli stessi stivali! Erbsen ha raccolto altri racconti simili, in particolare dai monti Appalachians meridionali - ma anche dall’Europa occidentale.
In generale, nelle nostre storie sembrano variare:
L’ambientazione della vicenda, che tocca diverse parti degli Stati Uniti, ma che a volte può sconfinare anche in altri Paesi “selvaggi” del continente meridionale americano. L’erpetologo tedesco Hermann Schlegel, in un trattato sulla fisiologia dei serpenti, menziona la storia ambientandola in Suriname, allora colonia olandese, ma ci sono versioni provenienti anche dall’interno del Brasile e dalle Antille.
L’identità, il numero e il grado di parentela dei morti, che possono essere un uomo e i due figli, oppure un figlio e un vicino, o altri parenti (fratelli, ecc.), fino ad arrivare a versioni dove la catena di morti attraversa tre o quattro generazioni, oppure può coinvolgere anche sei persone diverse più o meno imparentate fra loro.
Lo scopritore del dente, che spesso - tratto comune a parecchie altre leggende - è un medico, ma può essere anche un becchino o un familiare delle vittime.
A volte, infine, la leggenda si lega ad altre credenze e superstizioni sui serpenti a sonagli, come il fatto che siano più velenosi durante la muta, o che smettano di esserlo quando l’animale è morto.
Gli stivali nello Stivale
Il racconto arrivò più volte anche in Italia, ma - si noti - senza essere mai collocata nel nostro Paese. Era veramente una leggenda dai tratti esotici. Abbiamo reperito menzioni nella nostra lingua fin dal 1829, come in questa raccolta dell'Indicatore Lombardo, che ripubblicava articoli "tolti dai più accreditati giornali" sugli argomenti più disparati,: nel caso specifico, niente meno che dalle Philosophical Transactions londinesi, che si occupavano di crotali nel Nordamerica. Particolare curioso: la vicenda stavolta è ambientata... in Transilvania, per una probabile confusione con la Pennsylvania. La riportiamo per intero, vista l'insolita ricchezza di dettagli:
Questo veleno conserva lungo tempo e forse all'infinito le sue fatali proprietà, e ciò vien provato dal fatto seguente, la cui esattezza è garantita da testimoni autentici. In un distretto nel centro della Transilvania un contadino andando a diporto pei propri campi verso l'epoca delle messi, venne morsicato in una gamba attraverso gli stivali da un serpente a sonagli senza che né sentisse, né vedesse l'animale. Era stata tanto debole l'impressione del dente che quasi la credette una leggiera scalfittura di uno spino, né vi badò. Rientrato in casa, violenti dolori di stomaco ed impeti convulsivi di vomito dopo poche ore troncarono la sua vita. Passato un anno, il maggior figlio dell'estinto ne calzò gli stivali all'uopo di recarsi ad una chiesa poco lontana, e li tenne sino a sera. All'atto di levarli, credette sentire un piccolo prurito ad una gamba, e la fregava con una mano, mentre ne movea parola alla propria moglie, come di un ale di cui non sapea indovinare la causa. Passate alcune ore si sentì molestato da dolori molto vivi: tutte le sue membra si irrigidirono, fu preso da varii ed incessanti svenimenti e venne colpito dalla morte prima che si potesse arrecargli alcun soccorso. Due avvenimenti di tal fatta, accompagnati da eguale circostanza non bastarono a dar sentore della causa del male, e già non se ne parlava più, quando un nuovo accidente sparse alcuna luce sopra questo mistero fino allora incomprensibile. Dopo poco tempo la vedova dell'ultimo defunto mise in vendita le robe di suo marito: uno dei fratelli di lui non volle che gli stivali paterni cadessero in mani straniere, e ne fece acquisto. In capo a due anni, se la memoria non mi tradisce, egli calza gli stivali comperati: s'adopera a cavarli, ed ei pure si sente un prurito alla gamba: la vedova di suo fratello, presente al fatto, si ricorda allora tosto aver provata egual sensazione il proprio marito nel giorno di sua morte. Tali parole non valsero ad impedire che il giovane contadino tranquillamente si recasse a letto: ma ben presto fu sorpreso da fieri dolori, che poi, come già due volte era avvenuto, ebbero termine colla morte del paziente. Pel paese si parlò assai di un tal fatto: avvisatone un medico venne sul luogo, prese informazioni, interrogò gli amici e la famiglia delle tre vittime, finché per ultimo gli giunsero alla mano i funesti stivali. Esaminandoli attentamente trovò nell'interno della pelle di uno di questi infitta la piccola punta di un dente da serpente a sonagli; essa sporgeva assai poco dalla superficie interna del cuoio, e fino allora nessuno vi avea badato. All'uopo di provare, se veramente una causa tanto lieve in apparenza fosse la vera origine del male, il medico staccò la piccola porzione del dente, e con quella punse il muso di un cane: dopo poco tempo l'animale morì. Adunque debbesi credere, che i selvaggi dell'America non abbiano spinta molto lungi l'esagerazione, dicendo, che le freccie infette col veleno dei serpenti a sonagli per molti secoli sono ministre di morte inevitabile.
In questa versione compare anche la “controprova” fatta pungendo un animale sul muso: un motivo ricorrente in molte delle nostre leggende sul tema.
Sui giornali italiani, lo stivale che uccide ritorna per tutto l'Ottocento e fa capolino sino ai primi decenni del nuovo secolo. Sulla Nuova enciclopedia italiana della UTET, al volume V, uscito nel 1878, sotto la voce “Cascavella” - un sinonimo ormai scomparso per “crotalo” - se ne parla come di una voce diffusa in Brasile e in Nord America:
La nota storiella del pajo di stivali che costò ad una donna i suoi due mariti ed uccise ancora un terzo, perché un dente di crotalo v'era rimasto confitto, corre di bocca in bocca fra i Brasiliani come fra gli Americani del Nord, e viene dappertutto ascoltata senza contraddizione.
Su alcuni giornali protestanti, come L’Italia evangelica il 25 ottobre 1907 e L'Amico dei fanciulli del 14 marzo 1911, la vicenda riguarda “un fittavolo della Pensilvania” (sic) e viene usata per trarne una morale religiosa:
Come è tenace il veleno del serpente; ma quello del peccato lo è ancora di più. A renderlo innocuo all'anima nostra, non ci vuol niente meno che il sangue purificatore di Gesù Cristo.
Già molti anni prima lo stesso Amico dei fanciulli (1° novembre 1889, avente per protagonista “un abitante delle Antille”) aveva raccontato la vicenda con assoluta fiducia. Lo stesso, come visto in apertura, aveva peraltro fatto un po’ prima, il 6 settembre del 1907, il Corriere della Sera parlando del “caso famoso” del “fittavolo di Pensilvania”.
La carica dei naturalisti
Ma la storia dello stivale che uccide è plausibile da un punto di vista strettamente scientifico? Si tratta di un aspetto particolarmente interessante di tutta la vicenda, perché sovrappone al materiale folklorico un dibattito che nell’Ottocento era piuttosto vivace.
Nel 1802 il naturalista William Bingley pubblica la sua Natural History, ristampata e arricchita sino alla sua morte, nel 1823. Qui la storia del padre che passa gli stivali al figlio (che però si salva), è data per assodata, e nessuno oserà contestarla più di tanto. Il contrario avverrà per uno degli ornitologi più celebri di tutti i tempi, John James Audubon, con cui la polemica toccherà uno dei punti più alti delle polemiche sulla storia.
Nel 1835, su una delle riviste più colte del tempo, il Fraser’s Magazine di Londra, il naturalista Charles Waterton pubblicò infatti un’ampia requisitoria contro alcune delle cose scritte da Audubon nella sua Life of Birds, destinata a diventare un super-classico del settore: tre le affermazioni più contestate, compare anche l’episodio dello stivale, che Audubon aveva dato per buono. Anzi, probabilmente l’ornitologo ne era davvero convinto, dal momento che aveva presentato la stessa storia in occasione di una conferenza tenuta alla Wernerian Society di Edimburgo. Eppure - scriveva Waterton, fra le altre cose - è noto che i denti di un serpente velenoso provocano dolori immediati ed acuti, ed è quindi ridicolo pensare che la loro puntura passi inosservata. L’incredulità suscitata dalla saga dello stivale si accompagnava a evidenti riserve circa l’accuratezza di altre sue osservazioni sui serpenti a sonagli. Nel suo lavoro enciclopedico, Rattlesnakes, lo zoologo Laurence Kubler ha ricostruito con cura questa diatriba che offuscò la fama di Audubon, della quale la storia dello stivale avvelenato è soltanto una piccola parte.
Come già visto sopra, fu senza mezzi termini anche l’erpetologo tedesco Hermann Schlegel, nel suo trattato del 1837: le storie che si raccontavano negli Stati Uniti, in Sudamerica ma anche altrove (tre figli di un colono morti in successione) erano “favole”.
Altro aspetto originale. La leggenda della sopravvivenza della mortalità del veleno a lunghissima distanza di tempo dalla morte dell’animale o del distacco del dente fu usata - a vantaggio delle loro teoria - da sostenitori importanti di una pseudoscienza che allora era sorta da poco ma che era in piena espansione: l’omeopatia.
L’ornitologo e naturalista cuneese Franco Bonelli (1784-1830) avrebbe tentato un esperimento colpendo un animale con un dente di serpente a sonagli conservato da trent’anni (!) nell’alcool. L’animale sarebbe morto nel giro di un’ora, avvelenato. Bonelli ne scrisse entusiasta ad uno dei massimi esponenti del tempo dell’omeopatia, il giurista e medico tedesco Clemens von Bönninghausen (1785-1864). Non sappiamo a quando risale l’esperienza di Bonelli, ma il tedesco rammenta lo scambio con l’italiano in un suo libro del 1863.
A ben vedere, sotto certi profili il successo della nostra leggenda può essere letta anche come una conseguenza delle idee sulla massima diluizione di moda al tempo e, purtroppo, ancora ai giorni nostri. Si direbbe quasi un antecedente di quella che diventerà, nel secolo successivo, il cosiddetto principio della memoria dell’acqua.
All’origine della leggenda
In suo articolo, Snopes, il celebre sito di debunking, menziona due versioni piuttosto recenti della nostra storia degli stivali. Risalgono al 1937 e al 1989. Quest’ultima è curiosa, perché la prima vittima è un proprietario di ranch che schiaccia di proposito la testa di un serpente dopo averlo tramortito con una corda e ne muore. L’episodio, insomma, assume quasi i contorni del motivo della vendetta da parte dell’animale ucciso.
Però nel pezzo di Snopes c’è una cosa più importante. Il suo autore, David Mikkelson, riconduce il nostro racconto a un libro del 1782. Non ne cita il titolo, ma tutto indica che intendeva riferirsi a Letters from an American Farmer, del francese Michel Guillaume Jean de Crèvecœur (1735-1813), poi naturalizzato come statunitense in John Hector St. John. Si tratta di un libro importante per la storia della letteratura americana. Fu tradotto anche in italiano come Lettere di un agricoltore americano. Il volume fu tra i primi ad accendere l’interesse dell’opinione pubblica europea per il Nuovo Continente. E’ disponibile in versione digitale su Archive.org.
De Crèvecœur riporta la vicenda dello stivale fatale come raccontatagli direttamente dalla moglie e madre delle vittime (che, appunto, in questa versione sono due, padre e figlio: un vicino, che aveva acquistato le calzature dalla vedova, viene invece curato in tempo). La storia è ambientata nello Stato di New York, a Minisink, e il protagonista ha origini olandesi.
In realtà, però, si può andare ancora più indietro di così - e mettere anche in dubbio la storicità delle asserzioni di de Crèvecœur. Nel 1939, infatti, il folklorista James R. Masterson (1905-1981) pubblicò su American Literature un articolo completamente dedicato al nostro stivale assassino (The Tale of the Living Fang, vol. 11, n. 1, pp. 66-73). Nel saggio Masterson racconta in dettaglio il dibattito suscitato dal libro di de Crèvecœur. Già subito dopo l’uscita, la sua attendibilità venne contestata. Il suo maggior oppositore fu il bibliotecario Samuel Ayscough, che ne parlò alla Royal Society e produsse anche un intero libretto per mostrare quanto de Crèvecœur fosse stato approssimativo su quella ed altre cose.
Ayscough mise anche in evidenza che la storia pubblicata nel 1782 era fin troppo simile a quella presente in una fonte precedente: uno dei manoscritti della cosiddetta collezione Sloane, conservato presso la British Library di Londra, e più esattamente il ms 3339 (ff. 113 b-116), che risale al 1713. Qui compare una lettera inviata al botanico James Petiver dal capitano e navigatore James Walduck. In questa variante, la storia coinvolge una donna e i suoi tre mariti, che muoiono uno dopo l'altro dopo aver indossato lo stivale. Alla fine, un chirurgo scopre un "dente sottile come un capello" conficcato nella calzatura, lo usa per pungere un cane sul muso e questo muore. Molti giorni dopo l'uomo fa di nuovo l'esperimento con un altro cane: questa volta l'animale sopravvive. A quel punto "si suppose che il serpente era morto".
Per quanto ne sappiamo, è questa, in realtà, la versione più antica della nostra leggenda.
Varianti del racconto: lo stivale avvelenato
La storia del dente staccato che provoca la morte fa parte di tutta una famiglia di racconti simili che circolano sul suolo americano. Il folklorista Jan H. Brunvand le inserisce nella tradizione americana delle tall tales, le storie “esagerate” tipiche dell’umorismo statunitense.
Un filone di cui fanno parte, ad esempio, anche i fearsome critters - animali come il gatto cactus o la lepre cornuta che popolavano l’immaginario dei boscaioli in USA e Canada nel Diciannovesimo secolo. Diventa quindi difficile capire quante di queste storie siano state raccontate da persone effettivamente convinte della loro realtà e quante, invece, siano “spacconate”, narrate solo per il gusto di shockare l’uditorio o per il piacere di diffondere una storia curiosa. Ma questo, in fondo, non vale un po’ per tutte le leggende metropolitane?
Fra i sotto-motivi folklorici legati al nostro racconto c’è prima di tutto quello dell’uomo (di solito una persona eminente) uccisa in modo subdolo dal veleno di serpente o da un suo dente collocato negli stivali in modo doloso. Non si tratta dunque di uno scherzo della natura, come nel motivo principale, ma di un delitto.
Giovanni I, re di Castiglia (1358-1390) morì per una caduta da cavallo tenuta nascosta per giorni, ma la leggenda che circolò è che fosse stato ucciso da un turco che aveva intinto gli stivali del sovrano nel veleno di serpente. Calzandoli, il sovrano sarebbe rimasto avvelenato (Samuel-Auguste Tissot, Traité des nerfs et des leurs maladies, Losanna, 1790).
Anche questa variante ha vita lunga. Il 4 aprile del 1938 il Morning Bulletin australiano collegava la leggenda sul re di Castiglia ad un presunto episodio contemporaneo:
Questo delitto ha una controparte moderna. Un negro della Louisiana uccise un serpente a sonagli e, recisane una delle zanne, la conficcò nel cuoio degli alti stivali che indossava il padrone. Quando la vittima calzò gli stivali, la zanna gli graffiò la pelle, rendendolo gravemente infermo. Per fortuna si riprese.
Tentativo di replicare nella realtà gli effetti della leggenda o sua variante? Difficile a dirsi.
L’uomo avvelenato mentre lucida uno stivale
Il Magazzino toscano d’instruzione e di piacere, nel suo volume del 1766, riporta un aneddoto riferito dall’esploratore e botanico Pehr Kalm (1716-1779) all’Accademia Reale di Svezia, in relazione al suo viaggio nelle Americhe:
E' certo che un pover uomo essendo stato morso bene stivalato, dopo qualche tempo nel riprendere gl'istessi stivali per passarvi sopra dell'unto restò ferito da un dente del Crotaloforo, che vi trovò malamente attaccato, e ciò fu bastante perché perdesse poco dopo la vita.
La pneumatico avvelenato
Si tratta per definizione di una variante moderna, visto che riguarda un dente conficcato nella ruota di un’auto. Oggi la si trova su molti siti e libri, soprattutto in ambito statunitense, ad esempio qui o qui (dove sembra essere usata a fini evangelistici). Un altro caso, tratto da Never Turn Your Back on an Angus Cow: My Life as a Country Vet, di Jan Pol (2014), è invece stato raccontato qui dal Dr Beachcombing:
Quando la Christan Veterinary Mission mi mandò in New Mexico per insegnare le basi della medicina veterinaria ai proprietari dei ranch, mi raccontarono una storia, e tuttora non saprei dire se è vera. Di notte, raccontano, i serpenti si ammassano sulle strade asfaltate perché queste trattengono il caldo della giornata. Questo mi suona corretto. Poi, si dice, quando un serpente sente il pericolo di un'auto che sta per schiacciarlo, si attorciglia e apre la bocca. Poi si direbbe che quando un serpente avverte il pericolo che un’auto gli passi sopra, s’innalzi e spalanchi la bocca. Quando l’auto lo travolge, lo pneumatico schiaccia la mandibola superiore e alcuni dei denti cavi, che vanno ad infilarsi nella gomma. L’autista non se ne accorge e continua a guidare. Ma quando lo pneumatico si buca perché i denti affondano un po’, allora lentamente comincia a perdere aria. Sto solo ripetendo la storia per come mi è stata raccontata. Quello che capita a quel punto è che una persona che aggiusta la gomma le appoggia sopra una mano per sentire se c’è un chiodo piantato dentro, si graffia con il dente cavo, il veleno penetra nella pelle e il tipo rimane avvelenato. Posso crederci. Non ci vuole molto veleno per causare una reazione.
In altri casi a morire è un intero gruppo di meccanici, o addirittura, come per la storia dello stivale, più persone che manipolano lo pneumatico a distanza di tempo, come per la versione riferita da Jan H. Brunvand in Curses! Broiled Again! (1898), in cui i meccanici che ci rimettono le penne sono due.
E’ comunque probabile che questa variante sia sorta agli albori dell’era automobilistica. Il folklorista americano Mody C. Boatright ne aveva parlato in suo articolo sui racconti popolari texani apparso sulla rivista South Atlantic Quarterly già nel maggio 1931 (vol. XXX, pp. 272-273), poi, più in maniera più ampia, nel libro che pubblicò tre anni dopo, Tall Tales from Texas Cow Camps (pp. 2-6).
Se è vero che i serpenti a sonagli conservano una certa pericolosità anche da morti (la testa può mordere anche quando è staccata dal corpo), la storia del dente nello stivale sembra poco plausibile dal punto di vista della scienza. Ma è una storia che deve aver avuto successo nel folklore americano, dal momento che la troviamo, quasi immutata, per quasi trecento anni.
Dall'alto di questa leggenda, tre secoli (almeno!) ci guardano.
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