Articolo di Sofia Lincos
La gelateria: un luogo di perdizione, il primo passo verso una vita di degrado. Se oggi questi locali non sono generalmente considerati "peccaminosi" - a meno che non siate a dieta, ovviamente - c'è stato un tempo in cui andare a gustare un sorbetto rappresentava, almeno in alcuni ambienti, un terribile rischio per le giovani donne, che in questi esercizi pubblici avrebbero potuto essere rapite, violentate e avviate alla prostituzione. Questa leggenda, diffusa a inizio Novecento in libri e in articoli di giornali statunitensi, è stata analizzata nel 2009 su The Journal of American Folklore (vol.122, pp.53-74) da Bill Ellis, folklorista della Pennsylvania State University e uno dei più noti studiosi odierni di leggende contemporanee.
Siamo negli Stati Uniti. Il periodo è quello compreso tra il 1890 e il 1920. Per capire come questa leggenda possa essersi sviluppata occorre ricostruire la storia americana dell'ice cream, che proprio in questo periodo visse alcune delle sue fasi più cruciali.
Sino alla fine del Diciannovesimo secolo, la produzione del gelato era stata un processo complicato, accessibile solo alle classi più abbienti. La diffusione dei frigoriferi per usi industriali e commerciali dagli anni ‘80 di quel secolo e la progressiva diminuzione dei costi di produzione portarono finalmente questa specialità alla portata di tutti. A inizio Novecento in America il gelato era commercializzato principalmente come finger food, grazie ad appositi carretti guidati da immigrati italiani. I venditori di gelato venivano chiamati hokey-pokey men, un'espressione dalle origini non del tutto chiare: Ellis suggerisce un legame con l'hocus-pocus degli spettacoli di magia, oppure con la frase italiana "Oh che pochi", riferita all'esiguità dei prezzi (frase che però, alle orecchie di un italiano, suona sinceramente un po’ artefatta). In realtà, come facilmente constatabile, l’espressione è presente già dagli anni ‘60 del XIX secolo nella pubblicistica anglosassone, come nonsense giocoso o come intercalare di canzoni e filastrocche.
Ma torniamo ai nostri venditori di gelato. In breve tempo, alla minoranza italiana si aggiunse quella araba, proveniente dal Nordafrica e dal Medio Oriente. I coni non esistevano ancora, la crema congelata veniva servita in piattini - prontamente ripuliti e riutilizzati dal venditore - o schiacciata in un "panino" formato da due wafer sovrapposti.
A questa fase pionieristica risalgono diversi appelli delle autorità di New York e Philadelphia, che mettevano in guardia i consumatori contro i pericoli del nuovo cibo di strada, percepito soprattutto come anti-igienico e di dubbia provenienza (questo anche a fronte delle cicliche epidemie di febbre tifoide, i cui bacilli furono trovati più volte nei gelati da strada, a fine Ottocento). A partire dall’Esposizione mondiale di St. Louis del 1904 si diffuse l'uso del cono (brevettato nel 1903 da un hockey pockey di Manhattan, il veneto Italo Marchioni). In poco tempo, il gelato ebbe un incredibile successo, e si svilupparono nelle grandi città i locali specializzati, dove il consumatore poteva sedersi e ordinare il nuovo alimento insieme a un altro prodotto allora popolarissimo, la soda.
Da dove viene allora la cattiva fama “morale” di cui soffrivano le gelaterie? Nel suo lavoro Ellis elenca una serie di fattori che potrebbero aver contribuito all'aura negativa di questi locali.
Tanto per cominciare, come accennato, si trattava di luoghi visti come "esotici", gestiti per lo più da italiani e mediorientali. Per conseguenza, erano rivestiti da tutta una serie di pregiudizi xenofobi: gli alimenti serviti venivano additati come poco puliti o confezionati con ingredienti di dubbia provenienza (cosa che, peraltro, considerate le condizioni produttive, era comune in qualsiasi lavorazione alimentare dell’epoca). Ellis paragona queste narrative alle analoghe leggende diffuse anche ai giorni nostri, in cui il piatto gustato al ristorante cinese si rivela in realtà carne di topo, di cane o addirittura umana, costituendo una violazione dei tabù culturali della società in cui il nuovo cibo ha fatto irruzione. La circostanza che le gelaterie fossero frequentate da giovani donne in assenza dei familiari o dei mariti diventò rapidamente un punto a loro svantaggio.
Commenta Ellis:
La leggenda delle gelaterie diffusasi nel 1910 è esattamente parallela [a quelle sui ristoranti esotici], anche se non è il gelato in sé che minaccia colui che lo consuma, ma è la visita non supervisionata alla gelateria, che costituisce in sé una violazione delle norme sociali, un passo verso una manifestazione più libera di identità sessuale. [...] Le leggende si equivalgono nel mostrare che coloro che entrano in un mondo culinario controllato da stranieri rischiano di alterare il loro sistema morale, non solo quello digestivo, passando dal puro all'impuro.
Questo boom delle gelaterie, peraltro, si inseriva in un periodo di forte immigrazione: gli anni compresi tra il 1900 e il 1910 registrarono il più alto tasso di afflussi di stranieri, in proporzione alla popolazione totale degli Stati Uniti. Diversi partiti nativisti ne fecero una battaglia politica, sventolando lo spettro della criminalità in aumento; per loro gli italiani erano sporchi, abituati a lavorare poco, indissolubilmente legati alla mafia. Tutto ciò, nel periodo in cui gli immigrati dal nostro Paese contribuirono di più a far espandere e a innovare l'industria alimentare statunitense. Gli italiani iniziarono a gestire l'afflusso di alimenti verso le grandi città, soprattutto frutta e verdure fresche (è questo il periodo in cui entrerà a far parte della dieta americana anche la banana, altro alimento al centro di numerose leggende, e anche quello in cui nascerà il classicissimo banana split).
Questo spirito imprenditoriale portò diversi nostri connazionali ad arricchirsi in breve tempo. Per i detrattori questo poteva dire una cosa sola, e cioè la presenza di traffici loschi. E dietro poteva esserci benissimo lo sfruttamento della prostituzione.
Un altro fattore indicato da Ellis è la maggior libertà di cui le giovani donne cominciavano a godere. A inizio Novecento in America si diffuse a un gran ritmo l'istruzione superiore femminile. Ragazze non ancora in età da marito affluivano dai paesini di campagna alle grandi città per frequentare i college. Le esotiche gelaterie diventarono il classico ritrovo giovanile, in cui consumatori di ambo i sessi potevano conoscersi e flirtare senza dover per forza frequentare i bar (posti in cui si vendevano alcolici, e quindi pressoché tabù per il gentil sesso). Va anche detto che all'epoca gli attivisti contro la tratta delle bianche tendevano a sovrapporre, per motivi polemici, prostituzione e sesso prematrimoniale, così come non facevano grandi distinzioni fra violenza sessuale, coercizione e induzione alla prostituzione. Le gelaterie erano luoghi in cui le giovani e ingenue fanciulle di provincia potevano incontrare maschi adulti - magari stranieri e non di cultura wasp - pronti a indurle in tentazione e a trasformarle in "donne perdute".
Le preoccupazioni delle famiglie per l'integrità sessuale delle figlie lontane da casa andò a fondersi con un altro panico morale allora assai diffuso in tutto l’Occidente: quello della tratta delle bianche.
A cominciare dal 1880 circa, i giornali di tutta Europa cominciarono a dare risalto all'idea che dietro alla prostituzione agissero gruppi criminali, spesso gestiti da stranieri, che rapivano ragazze di buona famiglia e le avviavano a una vita di degradazione. Uno dei casi più eclatanti fu quello registratosi nel 1892 in Austria: diversi protettori di origine ebraica furono arrestati e processati per aver cercato di "spedire" prostitute in Brasile e in Turchia. In realtà, le "lavoranti" non erano affatto vittime di rapimento, ma donne (spesso anche loro ebree) che avevano accettato quel lavoro per sfuggire alla miseria. Eppure la stampa internazionale non mancò di descriverle come "schiave bianche del traffico ebraico".
Ernst Schneider, politico cattolico antisemita ed esponente di punta del partito cristiano-sociale, tenne un accalorato discorso al parlamento austriaco, in cui denunciava gli
Innumerevoli casi in cui domestiche cristiane al servizio di ebrei scompaiono senza traccia, portate via verso un orribile destino nei bordelli di Ungheria, dell’Oriente e del Sudamerica, nonostante la vigilanza delle autorità competenti. Questi casi sono legati ai crimini indicibili compiuti dagli ebrei a causa delle loro superstizioni, che hanno lo scopo di impossessarsi di sangue cristiano.
La prostituzione sollevava sospetti di rapimenti, di riduzioni in schiavitù, e faceva tornare a galla l’antica, spaventosa accusa del sangue contro Israele. A queste voci si sovrapposero altre dicerie: si raccontava che giovani donne di buona famiglia venissero addormentate con aghi nascosti intrisi di narcotici mentre camminavano per strada o sedevano su una carrozza, per essere rapite e spedite negli harem di ricchi arabi. Leggende che ritorneranno anche in tempi recenti, a partire dagli anni ‘60, con le accuse di rapimenti nei camerini dei grandi magazzini.
Tutti questi fattori contribuirono a creare un panico morale, al cui cuore c’erano le storie cicliche su rapimenti di giovani donne. A fomentare la paura degli americani contribuirono diverse organizzazioni religiose, per lo più protestanti, impegnate nella difesa della moralità, come l'Esercito della Salvezza, oppure i seguaci del propagandista anti-pornografia Anthony Comstock. Al loro fianco, i movimenti politici cosiddetti nativisti, cioè quelli volti contro l'immigrazione. Molto popolare fu, nel 1910, la pubblicazione di un volume intitolato Fighting the Traffic in Young Girls, or, War on the White Slave Trade, una raccolta di testimonianze scritte dai protagonisti della crociata contro la tratta delle bianche, uscito a cura della Illinois Vigilance Association. All'interno si trovano affermazioni perentorie come questa, opera dell'attivista anti-prostituzione Florence Mabel Dedrick, missionaria di una chiesa evangelicale di Chicago, la Moody Church:
Le gelaterie sono i posti dove schiere di ragazze hanno intrapreso il loro primo passo verso la perdizione.
Opinione, a quanto pare, condivisa dalla stessa magistratura. Emblematiche le parole di Edwin W. Sims, procuratore distrettuale di Chicago, riferite nel volume di cui sopra:
Che la cosa sia chiara alle ragazze che arrivano qui in città: è molto probabile che le comuni gelaterie siano in realtà una ragnatela per la loro riduzione in schiavitù.[...] E' difficile dire che anche solo una settimana passi senza che qualche giornale pubblichi i dettagli di operazioni di polizia in cui queste gelaterie sono il teatro di deplorevoli tragedie.
Ovviamente, il pericolo era maggiore quando gli esercizi erano gestiti da stranieri, in specie da italiani o mediorientali: meglio comunque tenersi alla larga da questi “centri di reclutamento della prostituzione", a Chicago come in altre città.
Nel 1895 a New York un uomo testimoniò di essere al corrente del fatto che diverse gelaterie erano in realtà bordelli mascherati, mentre la città di Chicago varò addirittura una legge per impedire ai locali di dotarsi di "tende, di paraventi o di strutture di qualsiasi tipo che possano servire a dividere questi posti in compartimenti". Meglio che ciò che accadeva al loro interno fosse sempre sotto l'occhio vigile dei cittadini onesti.
Questa cattiva fama andò pian piano sfumando a cominciare dagli anni '20, quando la manifattura del gelato assunse dimensione industriale e i locali che lo vendevano persero quel tratto di esotismo che li aveva contraddistinti fino a quel momento. Anzi, il gelato stesso entrò a far parte pienamente della tradizione culinaria statunitense, come testimonia questa leggenda riportata da Ellis:
Dal 1918, il piatto fu così profondamente "americanizzato" che un'affermazione ricorrente sui media asseriva che [il gelato] fosse stato inventato da Martha Washington, che aveva lasciato una scodella di crema all'esterno in una fredda notte per un gattino del vicinato, e l'aveva trovata congelata in una forma solida al mattino. Assaggiandolo, la prima first lady aveva scoperto che si era accidentalmente trasformata in una crema "liscia e deliziosa".
Al lettore non sarà sfuggita l'improbabilità della storia: lasciando una scodella di crema a basse temperature si ottiene soltanto una scodella di crema congelata, e non certo il gelato che noi tutti conosciamo bene. L'episodio ricalca altre leggende "di creazione accidentale", in cui presunti errori o incidenti culinari si rivelano un incredibile successo commerciale. Eppure, questa storiella testimonia che il processo di integrazione era ormai concluso. La gelateria era diventata una vera e propria specialità made in USA, pregiudizi e timori nei suoi confronti non avevano più ragione di esistere.
A cominciare dal 1918, il panico morale contro le gelaterie scivolerà nell’oblio.
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